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 2010  maggio 29 Sabato calendario

UNA RICETTA INGLESE PER LA CONSULENZA

Ispirarsi alle regole imposte dagli inglesi non è necessariamente una grande idea, almeno a giudicare dal fallimento della direttiva Mifid che fu scritta nell’interesse delle investment bank anglosassoni. Però è anche vero che quella direttiva è stata figlia dei tempi in cui quella lobby era assai potente. A seguito della grande crisi e dei salvataggi statali nell’industria finanziaria, l’attenzione si è oggi spostata a favore dei risparmiatori troppo spesso danneggiati dai comportamenti degli intermediari. Proprio al fine di «ristabilire la fiducia dei consumatori nei confronti del mercato finanziario» la Financial Services Authority (Fsa), l’autorità di vigilanza britannica, ha pubblicato nelle settimane scorse una nuova regolamentazione dei servizi di consulenza agli investitori privati, che entrerà in vigore alla fine del 2012. E’ una normativa drastica, che mira ad azzerare le distorsioni che caratterizzano i servizi prestati da intermediari pagati a commissione. T utti i soggetti autorizzati a prestare consulenza agli investitori privati dovranno esplicitare i costi per ogni servizio prestato e non potranno più nascondere la remunerazione percepita per l’attività di advice dietro le commissioni applicate sui prodotti suggeriti. Inoltre, questi stessi soggetti non potranno accettare provvigioni in cambio della raccomandazione di specifici prodotti. I consumatori sapranno con precisione cosa stanno comprando, che prezzo dovranno pagare e avranno la sicurezza che ciò che viene loro consigliato è nel loro esclusivo interesse. «Il punto fondamentale – scrive l’Fsa – è che il corrispettivo della consulenza verrà concordato tra il consulente e il cliente e non più tra il consulente e il fornitore del prodotto (come la società di gestione, la banca o la compagnia di assicurazione) ». Chi non vorrà o non potrà pagare la consulenza, potrà accedere a un advice
semplificato il cui costo sarà implicito nei prodotti sottoscritti, così come accade attualmente.
Le misure varate nel Regno Unito ovviamente sono già oggetto di discussione negli altri stati membri dell’Unione europea. Molto probabilmente la revisione della direttiva Mifid ne terrà in qualche modo conto. In Italia simili regole avrebbero il grande pregio di mettere la parola fine al mito che la consulenza non si paga. Una percezione che riguarda i servizi di investimento, ma non è del tutto estranea ad altri prodotti del capitale intellettuale, come quelli degli architetti, degli avvocati, dei commercialisti e così via. Negli articoli a fianco si leggono esempi di come questa consulenza agli investitori sia erogata al primo incontro da soggetti autorizzati (pagati a commissione o a parcella). Quelli specializzati (come i promotori finanziari e i consulenti feeonly)
si adatterebbero senza difficoltà all’impostazione inglese. Molti problemi sorgerebbero invece per tutti gli altri intermediari, ossia le banche e la Posta, dai quali transita oltre il 90% del risparmio degli italiani. Come si può far pagare a parte una consulenza prestata da dipendenti, certamente di buona volontà, ma mal retribuiti, pressati dai budget commerciali, dotati di una formazione esclusivamente finalizzata alla vendita e sottoposti a job rotation
(ossia: per qualche mese fai il consulente e poi torni al back-office)?
Alla base di una valida consulenza c’è sempre un capitale intellettuale che va coltivato nel tempo. Con metodo e passione. Occorre, quindi, puntare sul valore degli individui, una banalità che le grandi corporation
(non solo finanziarie) sembrano dimenticare in un’epoca in cui dominano tagli e riorganizzazioni.