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 2010  maggio 24 Lunedì calendario

ROMA (24

maggio) - Anche se Amartya Sen ha vinto il premio Nobel per l’economia, definirlo semplicemente un economista sarebbe come definire la Tetralogia di Richard Wagner una canzone. Ogni libro di Sen è in realtà un viaggio attraverso i territori della filosofia, della sociologia, della letteratura. E L’idea di giustizia (Mondadori, 457 pagine, 22 euro), appena uscito in libreria, è un saggio forse ancora più interdisciplinare degli altri, che si muove fra Dickens e Adam Smith. un flusso di ragionamenti e intuizioni che si confronta con Hobbes, Kant, Mill, insomma gente di un certo livello. L’ambizione di Sen è di proporre una nuova formulazione del concetto di ”giustizia”. Una concezione pragmatica di cosa è giusto e cosa non lo è. «Cerco - spiega l’autore - di rendere l’idea di giustizia più facile da capire. E anche più facile da utilizzare nella pratica».

In che modo?
«Tanti grandi pensatori si sono posti la domanda: come è fatta una società perfettamente giusta? Da questo interrogativo sono partiti John Locke, Jean Jacques Rousseau, Immanuel Kant, e nei nostri tempi John Rawls, Ronald Dworkin, Robert Nozick...»

Ed è una domanda sbagliata?
«Non è quella giusta da cui partire. Trovare una risposta è molto difficile, e probabilmente daremmo tutti una risposta diversa. Invece potremmo tutti trovarci d’accordo nell’individuare alcune ingiustizie concrete, sostanziali, che possono ragionevolmente essere cancellate dal mondo. Si può raggiungere un’intesa su una pratica della giustizia, e questo ha un significato anche dal punto di vista concettuale. Dobbiamo puntare sulla riduzione dell’ingiustizia, piuttosto che inseguire l’idea irraggiungibile di una società perfettamente giusta».

Ma siamo sicuri che esistano questi casi di ingiustizia riconosciuti unanimamente come tali? Per esempio: la discriminazione delle donne non è considerata da tutti come un’ingiustizia. Persino il diritto alla salute non è visto allo stesso modo dalle diverse culture e religioni.
«Spesso quello che ci sembra un disaccordo in realtà non lo è. Se le persone non hanno avuto la possibilità di impararare, di discutere, di scoprire che le regole in vigore nel loro paese sono diverse da quelle seguite nel resto del mondo, allora c’è una falla nel ragionamento e non possiamo parlare di accordo. Così come a volte quelle che appaiono convinzioni condivise si basano sull’assenza di un ragionamento e di una conoscenza empirica».

Per esempio?
«In alcuni paesi le donne stesse accettano la mutilazione genitale, il divieto di uscire di casa, o l’obbligo di indossare abiti che le coprono interamente. Lo accettano come un dato di fatto, senza aver avuto l’opportunità di discuterne e senza sapere cosa accade negli altri paesi. Non possono esaminare le loro condizioni, il loro ”soggiogamento” come lo chiamava John Stuart Mill. Si tratta dunque di un consenso apparente. Il vero consenso è il frutto di un ragionamento, non è il consenso su qualcosa che abbiamo ricevuto così come è. Adam Smith fa l’esempio dell’infanticidio nell’antica Grecia».

Già, perché i greci, padri della civiltà occidentale, praticavano l’infanticidio.
«E tutti lo consideravano necessario per il bene della società. Perché nessuno dissentiva? Perché, osserva Smith, nessuno sapeva che in altre parti del mondo c’erano civiltà che funzionavano bene senza praticare l’infanticidio. Se l’avessero saputo avrebbero cambiato idea».

Oggi nel mondo occidentale si avverte un forte malcontento nei confronti della democrazia e delle sue istituzioni. un fenomeno che la preoccupa?
«Non è la prima volta che succede. Non dimentichiamoci che Hitler è stato democraticamente eletto, e si potrebbero portare esempi anche di altri paesi, compresa l’Italia. Il popolo a volte si rende conto che il popolo stesso commette tanti errori, e quindi comincia a pensare che un superuomo può prendere decisioni migliori. Ma la Storia ci insegna che, per esempio, le carestie avvengono solo nei regimi autoritari: l’Unione sovietica negli anni Trenta, la Cina fra il ”58 e il ”61, la Cambogia, l’Etiopia. Paesi dove milioni e milioni di persone sono morte di fame senza avere la possibilità di protestare e senza poter ricevere le informazioni. Mill diceva che la democrazia è governare attraverso il dibattito. vero che spesso la democrazia funziona male, ma bisogna sempre farsi la domanda: qual è l’alternativa?»

Lei nel libro cita una vecchia battuta: la democrazia è governare attraverso il dibattito, ma funziona solo se la gente smette di parlare.
« una frase di Clement Attlee (il premier britannico laburista degli anni sessanta, ndr.). quel tipo di battuta che ottiene sempre la risata quando viene detta in pubblico, ma non ci aiuta molto. vero che nel governare a un certo punto bisogna prendere delle decisioni, ma questo non interrompe la discussione. Bisogna riesaminare la situazione alla luce degli effetti prodotti da quella decisione. In una discussione, se una parte vince questo non significa che da quel momento in poi l’altra parte deve tacere».

C’è chi dice che nel mondo l’ingiustizia è necessaria perché garantisce la selezione naturale e la sopravvivenza dei migliori.
«La selezione naturale è un ottimo modo per spiegare l’evoluzione delle specie, ma non ci è utile come base per analizzare il concetto di giustizia. Giustizia vuol dire prendersi cura dei più deboli, non eliminarli. Se prendessimo la sopravvivenza dei migliori come criterio di giustizia, allora potremmo arrivare a desiderare che la specie umana venisse rimpiazzata da esseri superiori. Il che sarebbe un pensiero