Luca Miele, Avvenire 28/5/2010, 28 maggio 2010
[Articolo + Box] REPRESSIONE E SFRUTTAMENTO: COS LA CINA COLONIZZA IL TIBET Per sette anni un manipolo di geografi cinesi ha studiato carte, ipotizzato percorsi, spiato monti e varchi
[Articolo + Box] REPRESSIONE E SFRUTTAMENTO: COS LA CINA COLONIZZA IL TIBET Per sette anni un manipolo di geografi cinesi ha studiato carte, ipotizzato percorsi, spiato monti e varchi. Dovevano tracciare una lunga linea ferroviaria che unisse Pechino a Lhasa, la capitale del Tibet. Come racconta il reporter americano Abrahm Lustgarten nel suo Il grande treno, la missione obbediva a una segreta strategia: scovare nel cuore del Tibet quelle risorse che giustificassero una tale, titanica impresa. E le trovarono. Secondo il China Tibet information center, una ”cassaforte” da 128 miliardi di dollari. Siamo nel 1999. Da allora i legami tra Cina e Tibet – dopo l’occupazione del ”51 - sono diventati sempre più stretti. I tibetani hanno più volte tentato di liberarsi della tutela di Pechino. Senza successo. Archiviata la fiaccola olimpica – accompagnato da proteste in mezzo mondo e culminata nella rivolta del marzo 2008 – il Tibet è stato risucchiato in un cono d’ombra. Le luci si sono spente sulla culla del buddhismo. Nelle stanze dei bottoni di Pechino, invece, a nessuno sfugge l’importanza strategica della regione autonoma. La Cina ha urgenza di ridurre la dipendenza dalla miniere di carbone? già pronta la ”soluzione”: costruire una gigantesca diga sul fiume Tsangpo, in Tibet. Come ha anticipato il quotidiano inglese The Guardian , al progetto manca solo il bollino dell’ufficialità. Per il resto è tutto pronto. Il progetto della Hydro China dovrebbe consistere nella costruzione di un impianto di 38gigawatt, più grande della diga delle Tre Gole, che tanto scalpore ha suscitato in passato per l’esodo forzato degli abitanti del luogo. Ma l’impresa rischia di innescare nuove turbolenze sociali, in una regione sempre pronta a infiammarsi. Il quotidiano di Hong Kong South China Morning Post ha riportato le parole di un geologo, Yang Yong, secondo il quale «non si può immaginare un luogo più pericoloso per costruire una diga». L’area, infatti, è interessata da violenti terremoti, come quello del Qinghai, ai confini con il Tibet, ad aprile, con scosse fino a 7,1 gradi della scala Richter e oltre 2.000 morti ufficiali. La storia delle infrastrutture è, d’altronde, uno specchio fedele dei tormentati rapporti tra Pechino e Lhasa. Quello che era un isolamento quasi totale si è trasformato in una (pericolosa) prossimità. Dopo l’occupazione del ”51 è Mao in persona a ordinare al suo esercito di lavorare alla costruzione di due autostrade che partissero da Lhasa. Fino a quel momento c’erano solo piste polverose e impervie. A lavori terminati la capitale si trovò a venti giorni di viaggio da Pechino. Da allora i tempi di percorrenza si sono sempre più accorciati. Aperta nel 2006, la tratta ferroviaria Qinghai-Tibet (costata 4,3 miliardi di dollari) ha trasportato 18 milioni di passeggeri e 90 milioni di tonnellate di merci. Secondo le statistiche ufficiali, nel 2009 il Tibet ha accolto 5,56 milioni di turisti. I dati - snocciolati da Xinhua, l’agenzia di Stato cinese - rivelano che i trasferimenti di credito a Lhasa tra il 1959 e il 2008 ammontano a 22 miliardi di euro. Nel 2007, Pechino ha adottato il piano quinquennale 2006-2010, impegnandosi a investire 8 miliardi di euro per realizzare 180 progetti. A Pechino sottolineano come «la ricchezza del Tibet dai 155 miliardi di euro nel 1984 è passata a 1.550 miliardi nel 2001, per arrivare ai 4.400 miliardi nel 2008, con un tasso di crescita annuale pari al 12%». Nel 2006 il Pil ha superato i 1.000 euro pro capite. Un traguardo per il Paese che si è liberato dell’imbarazzante primato di fanalino di coda dell’economia cinese. Per Pechino tutto ciò significa progresso. Per i tibetani invece quella che si sta realizzando è una colonizzazione, una massiccia iniezione di cinesi di etnia han, ormai maggioranza nella regione. Lo stesso Dalai Lama – di solito molto cauto nelle sue dichiarazioni – ha recentemente affermato che «la Cina vuole annichilire il buddhismo» e che i monasteri sono ormai simili a prigioni. La replica non si è fatta attendere: le parole del «monaco politico sono solo menzogne Pechino non sembra avere l’intenzione di fermarsi. Il Tibet avrà presto un nuovo aeroporto. Che si preannuncia da record: sorgerà nella prefettura di Nagchu, a un’altitudine di 4.436 metri, 102 metri in più del vicino aeroporto di Bamda, che detiene il primato mon». diale dal 1994. I lavori dovrebbero cominciare l’anno prossimo e concludersi nel giro di tre anni per una spesa di 1.8 miliardi di yuan (180 milioni di euro). Lo scalo si aggiunge ai cinque già esistenti, per i quali si prevedono lavori di ampliamento per 800 milioni di yuan. Ma il ”braccio” economico è solo uno dei due adoperati da Pechino. L’altro è la repressione. Come scrive l’analista Willy Wo-lap Lam, in un j’accuse riportato da AsiaNews, Pechino si muove per gestire l’inevitabile «uscita di scena del 75enne Dalai Lama». Vale a dire: niente rivolte. E niente nuova guida con lo stesso (indiscusso) carisma di Tenzin Gyatso. Quello che è successo nel 2008 non deve più ripetersi. Ecco spiegato il ricambio politico, con la promozione del ”falco” Pema Thinley a presidente della Regione autonoma tibetana. Pema ha preso il posto di Qiangba Pucong, colpevole di non aver ”strozzato” subito la sommossa. La politica cinese non cambia. Secondo il Tibetan centre for human rights, sono 1.542 i tibetani detenuti dalla rivolta di Lhasa. Cinque le condanne a morte eseguite nel 2009. La militarizzazione prosegue; una conferma arriva dal numero dei profughi. «Ogni anno – ha detto al Times of India Tempa Tsering, vicinissimo al Dalai Lama – abbiamo avuto in media tra le 2.500 e le 3.000 persone in fuga dal Tibet. Ma dalla manifestazione di marzo 2008 il numero è calato. L’anno scorso solo in 600 hanno varcato la frontiera». Il pugno di ferro continua a schiacciare ogni forma di dissenso. Una delle ultime vittime eccellenti è stato il monaco Ngagchung, dell’Istitut Larung Gar, condannato a 7 anni di prigione. Come ricorda AsiaNews , la Cina ha colpito più volte l’istituto. Nel 2000 vi ha inviato un ”Gruppo di lavoro per la rieducazione patriottica” dei monaci. Nel 2004 il suo fondatore Khenpo Jigme Phuntsok è morto per cause mai chiarite. IL CASO DALAI LAMA, SCONTRO SULLA SUCCESSIONE I l governo cinese è uscito allo scoperto. «Non negozierà » sulla selezione del successore dell’attuale Dalai Lama, la decisione finale sulla scelta della reincarnazione dei Buddha viventi «spetta al potere politico». A rompere gli indugi – come ha riportato AsiaNews – il governatore della Regione autonoma tibetana, Pema Thinley , secondo il quale «non c’è alcun bisogno di discutere sulla reincarnazione del Dalai Lama». La successione alla carica di guida spirituale dei tibetani è divenuta una questione spinosa. L’eventuale uscita di scena dell’attuale XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso, preoccupa sia Dharamsala (sede del governo tibetano in esilio) che Pechino. I tibetani temono che la scomparsa del loro leader produrrà un indebolimento del movimento tibetano, che paradossalmente potrebbero sfociare in nuovi moti di violenza. Per evitare tutto questo, lo stesso Dalai Lama ha più volte affrontato il tema della sua successione. Secondo il Nobel per la pace, la sua reincarnazione «potrebbe nascere fuori dal Tibet e addirittura essere una donna». Un’altra ipotesi prevede l’elezione diretta del successore o un referendum per l’abolizione del potere politico connesso con la figura spirituale. (L.Mie)