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 2010  maggio 27 Giovedì calendario

DALLA FAMIGLIA L’ARGINE ALLA CRISI

«Aiutare il paese a preparare gli anni a venire è altrettanto importante quanto gestire le emergenze attuali». il messaggio lanciato ieri dal neo-presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, nella sua presentazione del Rapporto annuale dell’Istituto, alla Camera presente il presidente Gianfranco Fini. Un rapporto nel quale, accanto alla minuziosa descrizione della situazione dell’Italia all’indomani della più forte recessione attraversata dal dopoguerra ad oggi, l’istituto di statistica applica lo zoom sui problemi di sostenibilità di mediolungo termine cioè sulle questioni che condizionano pesantemente il nostro futuro, come la bomba demografica e gli squilibri strutturali di finanza pubblica legati al forte invecchiamento della popolazione(nel 2050 l’indice di vecchiaia per l’Italia sarà pari a 256 anziani ogni cento giovani) o come la sfida dell’ education. Sul versante dell’attualità economica, bastano alcune cifre contenute nel rapporto: tra le maggiori economie europee l’Italia ha registrato nel biennio 2008-2009 la flessione del Pil più accentuata, pari al 6,3%, contro il 3,8% della Germania, il 3,5% della media Uem e l’1,7% della Francia. L’Italia è riuscita a contenere il deterioramento dei conti pubblici, almeno in termini relativi, ha ricordato Giovannini; tuttavia, il nostro è anche «uno dei pochi paesi ad aver aumentato, nel 2009, il rapporto tra entrate e Pil», perché mentre il prodotto lordo fletteva del 5%, le entrate totali si sono ridotte solo dell’1,9% e la pressione fiscale è salita di tre decimi di punto, toccando il 43,2 per cento.
Il rapporto, poi, si concentra sugli effetti nel sociale della crisi. E scopre che nonostante la durezza della recessione, l’area del disagio lo scorso anno non è aumentata. Perché? Perché hanno agito due potenti ammortizzatori sociali: il primo è la cassa integrazione; il secondo è la famiglia. Così nel 2009 il reddito delle famiglie ha accusato una contrazione del 2,7%, il potere d’acquisto ha perso il 2,5%, è scesa la propensione al risparmio dell’8,7%, l’economia ha perso quasi 400 mila posti di lavoro; eppure, l’area del disagio economico non è aumentata.In base all’indicatore di deprivazione, l’anno scorso in Italia il 15,3% delle famiglie rientrava nell’area di disagio economico, con un lieve miglioramento rispetto al 15,8% del 2008. Se il ricorso alla cassa integrazione ha ridotto il rischio di incappare in situazioni di disagio, è soprattutto la famiglia ad aver assorbito e contrastato il colpo della perdita di occupazione o del mancato ingresso nel mondo del lavoro dei figli. Infatti, ha spiegato ieri Giovannini, quando un figlio in età compresa fra i 15 e i 34 anni resta senza lavoro va perduto solo il 28,3% del totale del reddito familiare, a fronte di un valore del 50,6% nel caso in cui a perdere il lavoro sia il padre e del 37,1% nel caso della madre . L’altra faccia di questa medaglia sta nel fatto che le vittime privilegiate della crisi sono stati proprio loro, i figli: solo nel 2009 l’occupazione tra i giovani di 15-34 anni è diminuita di 332 mila unità. Come risultato, si è andato aggravando il problema di una convivenza prolungata in famiglia, sempre più spesso forzosa (il 40% degli interessati si dichiara costretto a restare con i genitori dalle difficoltà economiche) che sta spingendo milioni di donne e di uomini italiani a rimanere "figli per sempre". Non basta. «Due milioni di giovani che non sono né a scuola, né al lavoro: è un numero molto alto rispetto ad altri paesi europei ed è un elemento di forte preoccupazione, ha sottolineato Giovannini, ricordando che «è necessario investire di più sul capitale umano,nella scuola,nell’università ed anche nella formazione». Infatti nel 2009 poco più di due milioni di giovani, ossia il 21,2% degli under 29, risulta fuori dal circuito formazione-lavoro: in pratica non studia e non lavora. Un dato che è poco meno del doppio rispetto alla media dei paesi Ocse. il fenomeno chiamato "Neet", ossia "Not in education, employment or training", ed è diventato sempre più forte con la progressiva uscita dei giovani dal mercato del lavoro. Rossella Bocciarelli – GI L’OCCUPAZIONE TRA I LAUREATI - Che in Italia l’ascensore sociale non funzioni è un fatto noto. Il problema, però, non va cercato nell’università, almeno secondo i dati diffusi ieri dal consorzio AlmaLaurea che ha tracciato il profilo dei 190mila studenti che si sono laureati nel 2009. Fra i laureati di primo livello, evidenzia per esempio la nuova edizione dell’indagine, il 75% è figlio di genitori non laureati. Il problema esiste, suggeriscono le tabelle, e lo si incontra quando si guarda a quel che succede appena dopo la discussione della tesi: rispetto a dieci anni fa il tasso di occupazione nel primo triennio dopo la laurea si è ridotto di 8,6 punti percentuali, e anche calcolando chi impiega più tempo per trovare un lavoro (cinque anni) la flessione è del 3,6 per cento. «La riforma del 3+2 ha migliorato gli indicatori accademici, ma la ripresa non potrà essere garantita se il paese continua a non considerare prioritari e strategici gli investimenti in formazione superiore e ricerca», sintetizza Andrea Cammelli, il presidente del consorzio che tiene sotto costante monitoraggio caratteristiche e destino dei laureati made in Italy, rievocando il dibattito eterno tra fautori e detrattori del doppio ciclo.
AlmaLaurea, certo, è una «voce » dell’università, il consorzio raggruppa ormai 60 atenei italiani, ma nella mole dei dati messi a disposizione ieri sono molti i numeri che provano a sostanziare il successo della riforma. Prima di tutto intervengono i dati sulla «produttività» del sistema, che fra 2001 e 2009 ha aumentato del 22,5% il numero di anni di formazione ultimati (in termini di titoli l’aumento, nello stesso periodo, è del 71%, ma il dato è gonfiato dal fatto che i laureati magistrali sono conteggiati due volte, perché hanno ottenuto prima il titolo triennale). Scende l’età media alla laurea, che si attesta a 23,9 anni per i «dottori» di primo livello e a 25 per quelli di secondo livello (l’età media alla tesi sale a 26,1 anni nei corsi a ciclo unico, come architettura e medicina); merito anche di un calendario di studi che si fa meno aleatorio, e che porta al titolo nei tempi previsti il 39,2% dei laureati. Nel 2001 era un’altra epoca, e il 91,5% finiva in fuoricorso, anche se non tutte le aree di studio hanno marciato allo stesso passo: a far crescere i laureati in tempo sono soprattutto i corsi per le professioni sanitarie, dove l’arrivo al traguardo senza ritardi è quasi un fatto obbligato (riguarda il 72,8% degli studenti), mentre in facoltà come giurisprudenza la vecchia abitudine ai tempi lunghi è rimasta (solo il 18,2% si laurea in tempo).
Insomma, i progressi ci sono ma non tutto va bene: al di là della nota perennemente dolente della scarsa mobilità degli studenti (il 78,5% rimane in regione), a stupire sono soprattutto i progetti di chi ha conseguito la laurea magistrale, titolo che si rivela tutt’altro che definitivo. Il 41% di loro vuole rimanere sui libri, e il dato sale a quota 79% a psicologia: segno evidente che il rapporto laurea-occupazione resta problematico. Gianni Trovati