PIETRO CORSI, La Stampa 26/5/2010, pagina 28, 26 maggio 2010
IL VERO EQUIVOCO E’ CON LAMARQUE
Qualche mese fa ho ricevuto la telefonata di un redattore di «Nature». Mi chiedeva se conoscessi la data di pubblicazione della «Philosophie Zoologique», forse l’opera più nota di Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829), per i francesi il vero fondatore della teoria dell’evoluzione biologica, per gli inglesi un autore dalle idee un po’ confuse e in ogni caso fuori strada. Ho indirizzato il mio interlocutore verso il sito Lamarck (http://www.lamarck.cnrs.fr/), dove avrebbe trovato l’informazione che cercava: Lamarck presentò una copia del suo lavoro all’Institut, l’accademia delle scienze francese, il 14 agosto 1809. Era prassi comune offrire in omaggio all’Institut i propri lavori, freschi di stampa, prima della messa in vendita.
Cercai di approfittare dell’occasione per convincere il redattore a non ripetere le solite storielle su Lamarck morto povero, cieco e solo, deriso dal potente avversario Georges Cuvier, che non perse neppure l’occasione del funerale per inveire contro il collega. Inutilmente. L’articolo su Lamarck, autori ben tre colleghi, inanellava i più triti luoghi comuni sul profeta dell’evoluzione, che, come ogni profeta che si rispetti, deve essere disprezzato in vita, e l’essere cieco aiuta spesso a vedere più lontano dei miopi contemporanei.
A dispetto di tanti seri lavori su Lamarck e le prime fasi del dibattito ottocentesco sulla vita e la sua storia, la figura del naturalista continua a essere oggetto di rappresentazioni di comodo che poco hanno a che vedere con quel signor Lamarck che morì a Parigi alla fine di dicembre del 1829. Si continua a confondere Lamarck con il lamarckismo, un complesso fenomeno che prese forma solo a partire dai dibattiti che seguirono la pubblicazione dell’«Origine delle specie» nel 1859. Nessun lettore che mastichi qualche nozione di biologia ignora che al francese spetta il dubbio titolo di aver proposto la teoria dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, bene illustrata dall’esempio della giraffa che a forza di stiracchiarsi il collo si trova a brucare le fronde più alte degli alberi. Chi volesse con pazienza tornare al sito Lamarck, ed eseguire ricerche incrociate per parole, scoprirà che, in nessuna delle combinazioni possibili dei termini, Lamarck usa mai l’espressione «ereditarietà dei caratteri acquisiti». Non solo. Nessun contemporaneo ha mai attribuito a Lamarck tale tesi per il semplice fatto che la maggior parte dei naturalisti era convinta che tratti acquisiti nel corso della vita di un individuo potessero in qualche modo essere trasmessi alla generazione successiva. Il dibattito era semmai sui limiti di tali modifiche, se fossero cioè in grado di produrre col tempo nuove forme di vita.
La sorpresa maggiore l’avrebbe chi leggesse le pagine che, nell’opera «The Variation of Animals and Plants under Domestication» (1868), Darwin dedica alla teoria della pangenesi, elaborata per spiegare come modifiche intervenute nel corso della vita di un individuo potessero essere trasmesse alla generazione successiva. Emerge chiaramente che, tra i due, era Darwin il più convinto assertore dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, non Lamarck. Per il francese, impercettibili modifiche nella dinamica biologica individuale avvengono solo ed esclusivamente nelle prime fasi di vita di un organismo, quando l’organizzazione presenta tratti di plasticità. La giraffa non acquisisce il carattere collo lungo, ma a ogni generazione successiva, sotto stimoli analoghi che debbono colpire allo stesso tempo un numero sufficiente di maschi e femmine, lo sforzo di brucare più in alto invia maggiori quantità di fluidi (sangue, fluidi nervosi, linfa) verso le zone sollecitate, il collo per l’appunto. solo alla fine di un lento processo di impercettibili incrementi che il carattere emerge. La nuova generazione di giraffe non eredita il carattere, ma il processo di dinamica biologica che convoglia nutrimento e terminazioni nervose verso la zona sollecitata.
Darwin ammetteva, invece, che alcune modifiche fossero possibili nel corso della vita dell’organismo, e cercava di spiegare tramite la sua teoria come un tratto che si palesava solo nell’individuo adulto potesse venire trasmesso alla generazione successiva e presentarsi allo stesso momento dello sviluppo individuale. Immaginava dunque, in modo non dissimile da quanto proposto dal naturalista Buffon, che ogni parte dell’organismo inviasse delle particelle agli organi riproduttivi, particelle che entravano a far parte del materiale biologico da cui sarebbe nato un nuovo organismo. La teoria non ebbe grande successo. Persino i collaboratori più stretti di Darwin non nascosero un certo imbarazzo. Ciò detto, per Darwin la selezione naturale costituiva pur sempre il meccanismo principe dell’evoluzione e l’ereditarietà dei caratteri acquisiti, ammessa da Darwin come dalla maggior parte dei contemporanei, era un processo che doveva in ogni caso superare il test severo della competizione per la vita e della inevitabile, dura selezione che ne seguiva.
A dispetto di un anno di celebrazioni darwiniane, nel corso del quale molto si è parlato di Lamarck, tanto resta ancora da fare per comprendere in modo non agiografico e non anacronistico le vicende delle teorie dell’evoluzione nel XIX secolo.