Hamid Ziarati, il Fatto Quotidiano 26/5/2010;, 26 maggio 2010
IL REGISTA PANAHI TORNA LIBERO NELL’IRAN DELLA REPRESSIONE
Sono libero, sono vicino alla mia famiglia, sono più convinto che mai che il cinema è cinema. Ringrazio tutti!”, è la frase che appare sulla pagina facebook di Jafar Panahi dopo un paio d’ore dal suo rilascio e dopo essere stato visitato da un medico che gli ha prescritto una dieta adeguata per ritemprare il suo corpo debilitato da circa 3 mesi di carcere duro nel famigerato Evin di Teheran. Gli ultimi 10 giorni di quei 3 mesi Jafar Panahi li ha passati facendo lo sciopero della fame e della sete perché gli venissero riconosciuti i suoi diritti. Al telefono la sua voce è fiacca ma emana lo stesso il coraggio e la speranza che lo contraddistinguono mentre insiste a dire di ringraziare tutti in suo nome, pertanto è dura cercare un certo distacco professionale per intervistarlo e domandargli qualcosa sugli 86 giorni trascorsi in cella (senza poter incontrare il suo avvocato e solo saltuariamente i suoi famigliari, arrestati e successivamente rilasciati insieme a tutti gli amici presenti in casa di Panahi la notte del primo marzo, quando avvenne la retata) e diventa tanto più dura fare qualsiasi domanda, perché al telefono si sente lo schiamazzo di tutti i suoi amici e conoscenti che sono andati a casa sua per riabbracciarlo e fargli festa. Ciò che oggi festeggia Panahi in realtà non è una liberazione incondizionata ma una libertà limitata e su cauzione: l’atto di proprietà di casa sua come pegno, rilasciato dopo due giorni di pingpong fatto fare alla moglie tra i vari uffici che dovevano dare il nullaosta. A questo Panahi è arrivato solo intraprendendo uno sciopero della fame e della sete, dopo che la notte tra venerdì e sabato 21 maggio lo hanno svegliato all’alba e portato nel cortile della prigione per ispezionare la sua cella, accusandolo (certo che non gli manca la fantasia) di aver cercato di realizzare un film all’interno del carcere e minacciando di arrestare nuovamente tutta la sua famiglia. Toccato il fondo, Panahi ha preteso con il suo gesto autolesionistico d’incontrare i suoi famigliari, la sua avvocatessa e soprattutto di conoscere l’accusa per cui era stato arrestato, tutto questo in concomitanza con il festival di Cannes a cui avrebbe dovuto partecipare come membro della giuria: le lacrime della Binoche in mondovisione e le dichiarazioni del suo amico e maestro Kiarostami hanno contribuito poi alla sua causa. Se grazie alla sua caparbietà e all’intervento dei più autorevoli cineasti mondiali e della gente comune è stato possibile risentire la voce viva di Panahi oggi liberato dietro cauzione (per la quale avrebbe impegnato la sua casa), non si può di certo gioire per le sorti di tutti gli altri prigionieri politici in Iran. Ci sono 17 curdi iraniani, 7 bahii (appartenenti alla minoranza religiosa omonima), e altre decine e decine d’i ra n i a n i , studenti, giornalisti e intellettuali, legati direttamente o indirettamente ai gruppi di opposizione, costretti a confessare qualsiasi cosa sotto tortura, che in questo momento sono nel braccio della morte, e l’avvicinarsi della fatidica data del 12 giugno, anniversario delle elezioni usurpate a cui sono seguiti l’assassinio di Neda, di Taraneh, di Sohrab e di tutti gli altri uccisi dal regime, fa temere che ci possa essere una nuova ondata d’impicca gioni per intimidire la popolazione e impedirle di protestare contro il regime, un regime che sta svoltando sempre più verso un potere assoluto e assolutista e che già a partire da sabato scorso impedisce l’ingresso all’univer sità a tutte le studentesse che non siano perfettamente velate e a tutti gli studenti che siano vestiti alla moda o con le maniche corte. Il sostegno dato a Panahi e il risultato ottenuto può insegnare una cosa all’Occidente: che è necessario chiedere la liberazione di tutti quei prigionieri meno noti per sostenere proprio la stessa causa per cui Panahi si è battuto e continuerà a battersi a partire da ogg i.