Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 25/05/2010, 25 maggio 2010
I SUCCESSI EDITORIALI? IL CASO VINCE SEMPRE
«Ti mando questa bambinata, fanne quel che ti pare; ma se la stampi, pagamela bene per farmi venir voglia di seguitarla». Sapete di chi sono queste parole? Di Carlo Collodi in persona, che nel 1881 scrive così al direttore del Giornale dei bambini presentando la sua Storia di un burattino, destinata a diventare celebre come Le avventure di Pinocchio.
C’è una costante nella storia dei bestseller, ed è l’inconsapevolezza degli autori: lo dimostra una raccolta di indagini editoriali intitolata Non è un caso che sia successo (Laboratorio di Editoria dell’Università Cattolica di Milano, a cura di Roberto Cicala). Non è un caso? In realtà, il titolo potrebbe (dovrebbe) essere l’opposto: un caso che sia successo.
Chi vuole, può consolarsi constatando che neanche in passato i critici riuscivano a decretare il successo di un’opera letteraria. Mentre la favola di Collodi si affermò subito presso il pubblico, la critica italiana dovette aspettare oltre trent’anni per manifestare la sua approvazione: nel 1921 con Pancrazi e poi con Croce, che si limitò a constatare: « un libro umano, e trova le vie del cuore». La vera scoperta critica, però, era già avvenuta in Francia. Del resto, la vendibilità non va mai di pari passo con l’apprezzamento critico, e forse è normale che sia così: Cuore di De Amicis (un «fior di cialtrone» lo definì Carducci) non piacque per niente a Croce, secondo cui l’impronta forzatamente pedagogica vi soffocava ogni slancio artistico. Ci sono i successi per trasgressione, come quello di Colazione da Tiffany, bloccato in un primo momento per oscenità, mentre quando, nel 1958, apparve a puntate su rivista procurò un balzo inaspettato di vendite in edicola. Ci sono poi i successi tardivi, come Diceria dell’untore di Bufalino (sessantenne) e La forma dell’acqua di Camilleri (quasi settantenne). Tardivo, per ragioni non anagrafiche, è anche il successo di Zia Mame, nel senso che il pubblico se ne sarebbe accorto solo cinquant’anni dopo la prima pubblicazione. Non proprio inatteso, nel 1980 arrivò Il nome della rosa, ma Eco ne voleva fare una tiratura di mille copie per un raffinato editore come Franco Maria Ricci.
Morale. Tutti questi casi, a volte divertenti, parlano ognuno per proprio conto. Se un autore (o editore o direttore di marketing) più furbo di altri volesse trarre dalla rassegna un insegnamento valido universalmente (e dunque anche per sé), rimarrebbe con un pugno di mosche. Difficile, se non impossibile, intravedere una formula che garantisca un successo a colpo sicuro. Anzi, persino a posteriori risulta complicato trovare spiegazioni valide: arrampicandosi sugli specchi, le più frequenti sono la copertina, il titolo, un personaggio interprete di un gusto o di un sentimento diffuso. Quel che si può fare, semmai (e che viene fatto oggi molto più che in passato), è cavalcare l’onda quando l’onda, per ragioni insondabili, si è già alzata portando all’apice tipologie ben riconoscibili di opere o di autori cui appiccicare un’etichetta semplice semplice: il sublime, il noir etnografico, il giallo metropolitano, il reportage impegnato, il giovane outsider o viceversa l’anziano dimenticato, eccetera. Ma l’onda presto o tardi si abbassa e bisognerà aspettare la prossima.
Paolo Di Stefano