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 2010  maggio 24 Lunedì calendario

I COSTI STANDARD ALLA PROVA DECISIVA

Hanno ragione gli scettici alla Bruno Tabacci o gli entusiasti alla Roberto Calderoli? Per capire se i «costi standard», architrave teorica del federalismo fiscale prossimo venturo, si esauriranno in una boutade ideologica o saranno davvero la misura ammazza- sprechi che promettono di essere non sarà necessario aspettare il nuovo decreto attuativo, previsto per settembre, o peggio ancora l’applicazione concreta del nuovo meccanismo. Basta aver pazienza fino a lunedì prossimo.
Per quella data la regione Lazio dovrà presentare al governo il nuovo piano ospedaliero e i contratti con i privati (si veda Il Sole 24 Ore del 20 maggio), e dimostrare numeri alla mano di essere in grado di coprire il maxideficit con le proprie forze, oppure rassegnarsi ad andare dai propri cittadini con il cappello in mano per chiedere 360 milioni di euro di nuove tasse. Se la valutazione sarà rigorosa e la decisione sarà fondata solo sulle cifre, i fautori dei costi standard avranno buoni argomenti per sostenerne il carattere rivoluzionario; se invece l’incendiarsi della polemica politica suggerirà cautela e qualche altro temporeggiamento, i dubbi saranno leciti.
Il caso-Lazio, insomma, offre il battesimo del fuoco del federalismo, e le ragioni sono semplici. Alle regioni il nuovo sistema dovrà garantire il finanziamento integrale a costi standard per le tre «funzioni fondamentali» – sanità, assistenza e istruzione – ma la prima voce assorbe da sola il 94,7% della posta oggi in gioco (125 miliardi su 132). Se funziona in questo campo, il meccanismo funziona dappertutto, in caso contrario le sue chance sono nulle.
I conti regionali appena riallineati dalla commissione tecnica per l’attuazione del federalismo fiscale, che ha raccolto per voci omogenee i bilanci dei governatori per renderli confrontabili fra loro, aggiungono altri due elementi chiave che rendono la sanità laziale la cartina di tornasole dell’intero sistema: fra 2006 e 2008, la colonna delle uscite per ospedali e cure in regione è aumentata del 91,4%, cioè a un ritmo tre volte e mezzo maggiore rispetto a quello nazionale, che pure viaggia a un problematico +28,5% in due anni. Risultato: ogni cittadino di Roma e dintorni spende per il proprio sistema sanitario 3.172 euro all’anno, il 46% in più dei 2.175 euro che toccano in media a ogni italiano e il doppio dei 1.619 euro con cui se la cava ogni veneto. Le cifre snocciolate dalla commissione tecnica sono inoltre relative a due anni fa, e tutto lascia pensare che il conto totale e le differenze territoriali nel frattempo siano cresciute ancora.
Il federalismo fiscale e il sistema dei costi standard promette di risolvere proprio i casi come questo, di esplosione delle uscite finora coperte dai finanziamenti a piè di lista. Il meccanismo è ormai noto e prevede di garantire che i tributi propri (per ora, prima di tutto, Irap e addizionale Irpef), le compartecipazioni al gettito erariale (di Irpef e Iva) e la perequazione statale finanzino integralmente un costo ritenuto congruo per attivare le tre funzioni fondamentali delle regioni. Questo «prezzo giusto» dei servizi va individuato sull’esempio dei territori più virtuosi (tenendo conto naturalmente delle condizioni socio-economiche locali e dei livelli minimi di assistenza tutelati dalla costituzione), e più si stringe il cerchio dei "modelli" più aumentano i risparmi. Una griglia basata solo sulla regione migliore imporrebbe in teoria di diminuire la spesa per le tre funzioni anche di 15 miliardi di euro l’anno; più concreta, però, appare l’ipotesi che individua quattro regioni benchmark (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana), che imporrebbe risparmi per circa 2,3 miliardi.
La scelta sul mix finale di rigore e solidarietà spetta alla politica, ma per arrivarci serve un lavoro tecnico che non appare facile, viste le enormi differenze fra i territori. Restando sul terreno cruciale della sanità, il podio dei costi pro capite riflette fedelmente la geografia degli allarmi suscitati dalla notizia che il governo non intende ripianare i buchi con i fondi per le aree sottoutilizzate (Fas); dietro al Lazio si incontrano la Calabria e il Molise (che fra 2006 e 2008 ha visto crescere i costi dell’86%), mentre in Campania, l’altra regione a rischio di un’ulteriore stretta fiscale, il problema sembra soprattutto sul versante delle entrate. Al quarto posto, con oltre 2.600 euro pro capite, s’incontra la Lombardia, il cui dato si spiega anche con un diverso rapporto fra pubblico e privato e una forte immigrazione sanitaria che attira in regione pazienti da tutta Italia. I conti, però, sono in ordine, e anche andando indietro nel tempo si scopre che fra 2003 e 2009 la regione più popolosa d’Italia ha contribuito per meno dell’1% ai 28,4 miliardi di disavanzi cumulati dalla sanità. Umbria e Liguria (quest’ultima dopo aver rischiato molto in passato) sono invece le regioni con la dinamica dei costi più tranquilla, che fra 2006 e 2008 ha registrato aumenti entro il 5 per cento.