Luca Ricolfi, La Stampa 24/5/2010, pagina 1, 24 maggio 2010
LA POSTA IN GIOCO
Ci siamo. Oggi la commissione Giustizia del Senato dovrebbe completare la votazione degli emendamenti al disegno di legge sulle intercettazioni. Poi il testo approderà in aula, e la battaglia avrà inizio.
Ma battaglia su che cosa?
Il governo risponde: per la difesa della privacy. I giornalisti e gli editori ribattono: per la difesa del diritto all’informazione. Ma sono due letture unilaterali, perché nascondono troppe cose.
I difensori della legge non ci spiegano come mai, per tutelare il diritto alla privacy, non si sono limitati a proibire la pubblicazione dei testi delle intercettazioni, in particolare nei casi in cui sono penalmente irrilevanti o coinvolgono persone che nulla hanno a che fare con le inchieste. Se davvero questo - difendere la privacy dei comuni cittadini - fosse stato l’obiettivo della legge, essa non conterrebbe norme che addirittura impediscono di parlare delle inchieste, né sarebbe costellata da una miriade di ostacoli alle indagini, primo fra tutti l’impossibilità di intercettare per più di 75 giorni. Se davvero la tutela della privacy fosse il motivo ispiratore della legge, c’erano altri mezzi per assicurarne il rispetto, ad esempio la distruzione delle trascrizioni irrilevanti, come da più parti è stato ripetutamente suggerito.
Quanto ai critici della legge, in particolare i giornalisti, troppo spesso dimenticano che sono anche i loro comportamenti ad aver appiccato l’incendio che ora rischia di bruciare tutto e tutti. Quante volte abbiamo letto (o ascoltato alla radio, o visto in televisione) veri e propri processi di piazza? Quante volte presunti innocenti sono stati trattati come sicuri colpevoli? Quante volte abbiamo letto ricostruzioni tendenziose, accuse oblique, teoremi privi di solidi riscontri? Quante volte la vita di persone estranee alle indagini è stata sconvolta dalla pubblicazione delle intercettazioni? Su questo ha perfettamente ragione Piero Ostellino, che giusto ieri sul Corriere della Sera scriveva: «I processi, in uno Stato di diritto, si fanno in tribunale, non sui giornali, alcuni dei quali inclini, per ragioni editoriali o politiche, a fare strame della civiltà del diritto».
Ma non occorre scomodare un liberale doc come Ostellino per riconoscere come sono andate finora le cose. Pochi giorni fa, intervistato dal «Fatto quotidiano», Giulio Anselmi, presidente dell’Ansa, dichiarava testualmente: «Ci sono alcuni comportamenti che noi non avremmo dovuto tenere e rispetto ai quali ora si manifestano timide ammissioni. Adesso si cominciano a sentire giornalisti che dicono: abbiamo pubblicato intercettazioni inutili, coinvolgendo persone estranee alle indagini, per storie pruriginose. Mi piacerebbe che noi fossimo capaci di autoregolamentazione, sarebbe la via preferibile. Però non ho molta fiducia né nella nostra capacità di darci codici cui attenerci, né nell’Ordine dei giornalisti. Con rammarico - lo dico perché vorrei che ce la cavassimo da soli - credo si debbano accettare forme di tutela legale della privacy».
Per parte mia vorrei aggiungere: i giornalisti parlano come se oggi vigesse un regime di libertà di informazione, in cui i cittadini - grazie all’onestà intellettuale e al coraggio dei giornalisti - sono correttamente informati, in cui un’opinione pubblica «avvertita e consapevole» è in grado di «esercitare il controllo democratico sul comportamento di eletti e amministratori», come spesso si sente ripetere. Ma non è così, i cittadini italiani vivono in un sistema dei media inquinato dalla faziosità e dalla leggerezza, spesso poco o mal documentato, comunque lontanissimo dagli standard degli altri Paesi democratici. E a proposito di intercettazioni: non è strano che negli altri Paesi se ne pubblichino così poche, nonostante il diritto dell’opinione pubblica di sapere sia assai più tutelato che in Italia? Non sarà che la democrazia è compromessa innanzitutto dal fatto che, sia pure con le dovute eccezioni (Milena Gabanelli, per esempio), i nostri giornalisti indagano poco e si schierano troppo? Anche su questo la penso come Giulio Anselmi, che nella medesima intervista mestamente riconosceva: «Il giornalismo italiano non è mai stato uno straordinario cane da guardia della democrazia».
Attenzione, però. Dalla indifendibilità della «retorica democratica» dei giornalisti, che confondono il destino della loro corporazione con quello della democrazia, non discende in alcun modo che quella sulle intercettazioni sia una buona legge. No, è una legge pessima, ma non solo perché limita il diritto di cronaca e pone barriere eccessive all’attività dei giornalisti. Il primo motivo per cui quella legge è pessima non è il fatto che limita ulteriormente il nostro diritto di sapere, peraltro già gravemente compromesso dalla cattiva qualità dell’informazione che attualmente riceviamo. Il primo motivo per cui la legge sulle intercettazioni è una legge pessima è che essa è meticolosamente costruita per ostacolare il lavoro della magistratura e della polizia giudiziaria, una preoccupazione questa espressa anche dal capo della polizia Antonio Manganelli. Se quella legge passerà, le intercettazioni, che a parole quasi tutti riconoscono come un insostituibile strumento di indagine, non verranno semplicemente ridimensionate un po’, come è ragionevole (ci sono stati abusi da parte dei magistrati) e come in parte sta già avvenendo spontaneamente (nel 2009 sono diminuite, dopo quasi vent’anni di crescita ininterrotta: vedi grafico a pag. 5), ma subiranno un vero e proprio tracollo, in quantità e in efficacia. Il limite dei 75 giorni, le condizioni restrittive per richiederle, l’iter necessario per ottenere le autorizzazioni e le proroghe, sono congegnati in modo tale da rendere la vita impossibile alle procure della Repubblica. Questa, e non la libertà dell’informazione, è la vera posta in gioco. Per eccesso di autoreferenzialità il mondo dell’informazione non pare capirlo. Sta conducendo una battaglia per la difesa di qualcosa che non esiste (un’informazione completa, corretta e imparziale), mentre non sembra accorgersi che i principali bersagli della legge non sono i giornalisti bensì i magistrati, cui sarà sempre più difficile scoprire i colpevoli, siano essi criminali comuni, mafiosi, o politici corrotti. Per vincere la battaglia sulla libertà dell’informazione, rischiamo di perdere la guerra più importante, quella per una giustizia messa nelle condizioni di perseguire il crimine.