Varie, 25 maggio 2010
Tags : Georg Di Pauli
DiPauli Georg
• Bolzano 1956. Carabiniere. Colonnello, nel 2003 guidava la Msu (unità specializzata multinazionale) dell’Arma in Iraq. Sotto processo per le misure di sicurezza adottate alla base Maestrale di Nassiriya all’epoca della strage (12 novembre 2003, persero la vita 19 italiani, 12 carabinieri, 5 militari dell’esercito e 2 civili), nel maggio 2010 fu assolto dal tribunale militare perché «il fatto non costituisce reato» (il pm Giovanni Barone aveva chiesto due anni di reclusione) • «Perché a pagare dovrebbe essere sempre chi obbedisce agli ordini e non chi li impartisce? con questo spirito che [...] il colonnello dei Carabinieri Georg Di Pauli ha affrontato l’avvio del processo a suo carico nell’aula del Tribunale militare di Roma con l’accusa di non aver provveduto in modo adeguato alla difesa della base Maestrale a Nassiriya. Era la mattina del 12 novembre 2003. Quel giorno il camion carico di tritolo, che secondo le indagini sarebbe stato condotto da una cellula di Al Qaeda proveniente dalla regione a nord di Bagdad, penetrò facilmente le strutture difensive italiane esplodendo nel cuore della base e provocando 19 morti italiani, oltre ad almeno 9 iracheni. ”In verità io a fine giugno 2003 venni incaricato dai miei superiori di assumere il comando del contingente Carabinieri. Arrivavo fresco dalla missione in Kosovo. Altri avevano già scelto la disposizione delle nostre basi, che dovevano essere in città, tra la popolazione. Mi venne detto chiaramente più volte che noi dovevamo facilitare in ogni modo il rapporto diretto con gli iracheni, stare tra i civili: la nostra era una missione umanitaria, di pace e ricostruzione. Nessuno dei nostri servizi di informazione da Roma o da Bagdad mi segnalò mai che esistevano prove concrete di un imminente attacco terroristico contro le nostre basi”, dice Di Pauli al Corriere e sostiene in un memorandum presentato dalla difesa e già agli atti processuali. dura per un militare di carriera come lui, veterano di tante lunghe missioni all’estero (è stato tra l’altro ufficiale della missione Tiph tra gli osservatori internazionali a Hebron, in Cisgiordania) subire l’umiliazione del processo. E fa una smorfia di sofferenza nel leggere il burocratese dell’atto di accusa. ”[...] c’è scritto che la mia colpa sarebbe reato aggravato colposo di distruzione o sabotaggio di opere militari. In poche parole, mi si dice che sarei stato complice dei terroristi!” [...] E pensare che nei mesi precedenti l’attentato avevo chiesto materiali di diverso tipo per rafforzare le difese delle strutture delle nostre due basi sulle sponde dell’Eufrate, la Libeccio e la Maestrale. Volevo bande chiodate per i posti di blocco, ghiaia per riempire i cosiddetti ”esco-bastion’, i contenitori in fil di ferro finalizzati a rinforzare le mura di cinta. E altro. Ma non mi venne mai dato nulla. Segno, pensavo allora, che a Roma sono tranquilli”. Parole che sottolineano ancora una volta il problema di base: le difficoltà di operare per una missione che vorrebbe essere di pace, ma in realtà si trova in zone di guerra, o comunque guerriglia. [...] Gli altri due alti ufficiali dell’Esercito già processati, i generali Bruno Stano e Vincenzo Lops, avevano scelto il rito abbreviato e sono stati il primo condannato a due anni di carcere, l’altro assolto. [...]» (Lorenzo Cremonesi, ”Corriere della Sera” 13/3/2009) • la Repubblica del 25 maggio 2010 parla di assoluzione anche per Stano.