ROBERTO MANIA, la Repubblica Affari&Finanza 24/5/2010, 24 maggio 2010
CONFINDUSTRIA, L’EURO SALVA EMMA
Emma Marcegaglia ha trovato il suo alleato più forte. "esterno", sta sul mercato, e si chiama "euro debole". Perché la svalutazione aiuterà le esportazioni, darà un po’ d’ossigeno ai piccoli malandati padroni italiani, e ridurrà l’accerchiamento intorno al presidente della Confindustria. Una tregua.
Così mentre la prima crisi della moneta unica produce scenari inediti e inquietanti, gli industriali nostrani di grande, media e piccola taglia, complice la "flemmatica" politica economica del governo, si aggrappano pro tempore alla "zia" generosa e comprensiva che non gli ha mai lesinato il successo: la svalutazione.
Quella che per decenni ai tempi delle liretta, prima dell’euro, appunto ha nascosto sotto il tappeto tante delle nostre magagne competitive: dalla scarsa produttività di tutti i fattori, non solo del lavoro, ai bassi investimenti in innovazione e ricerca. Una vecchia ricetta, assai rassicurante, quasi identitaria. Al pari del grande rito pubblico che si celebrerà giovedì prossimo all’Auditorium di Roma firmato da Renzo Piano, nell’incrocio simultaneo tra politica, economia, finanza: quello dell’assemblea annuale della Confindustria. Tremila presenti tra invitati e delegati, centinaia di giornalisti.
Sarà la terza volta di Emma Marcegaglia, la relazione di midterm. La più difficile. Perché lo stato di salute di un’organizzazione di interessi non si misura solo con il numero degli iscritti, per quanto significativo, o con la percentuali bulgare con cui si approvano le proposte del presidente. Non bastano, infatti, i 141 mila aderenti (cifra record) a dire che la Confindustria gode di ottima salute, altrimenti al pari i tredici milioni di tessere starebbero lì a dire che Cgil, Cisl e Uil non sono mai state così bene.
Non è così perché Confindustria e sindacati influenzano assai poco le decisioni politiche ed economiche. C’è un declino, o almeno il rischio di compiere una rapida parabola discendente, che riguarda le grandi lobby e che ha a che fare proprio con la Grande Crisi che ha reso mobili, sempre più, i confini della rappresentanza sociale, che ha allargato a dismisura i confini geografici dell’azione economica, che ha trasformato in "inafferrabili" gli interlocutori politici (Giulio Tremonti o Angela Merkel?). questo mix di fattori che ha fatto diventare più evidenti e meno controllabili di un tempo i conflitti nella Confindustria: tra grandi e piccole imprese; tra monopolisti parapubblici e esportatori; tra industria e terziario avanzato.
Poi ci sono i conflitti personali, sotterranei ma allo stesso tempo laceranti: per esempio quello tra Marcegaglia e il past president Luca di Montezemolo a cui non è stato confermato il mandato alla presidenza dell’università degli industriali, la Luiss. Ma questo può essere un altro discorso.
Tanti confini, definiti tutti nel Novecento industriale, sono cambiati. E questo «mette in difficoltà la classica azione di interdizione delle grandi associazioni», sostiene Paolo Feltrin politologo dell’Università di Trieste che ha concentrato buona parte dei suoi studi sul rapporto tra politica e organizzazioni di interessi, ed è uno dei consulenti di "Rete imprese Italia", la neonata aggregazione di aziende commerciali e artigianali (in tutto circa due milioni) fondata anche in competizione con Confindustria. Perché un conto è avere un mercato esclusivamente domestico, altro è muoversi su uno scenario europeo o globale.
Sono imprese diverse che non possono non chiedere servizi diversi alla stessa organizzazione di interessi. Certo, accadeva anche prima, ma ora sono mutati i tempi di reazione: ora siamo al parossismo del "just in time". Da qui le spinte centrifughe all’interno della stessa organizzazione. Come quelle che hanno prodotto uno scontro senza precedenti tra la Confindustria e i piccoli costruttori aderenti all’Ance (20 mila iscritti, la prima associazione di categoria, presieduta da Paolo Buzzetti) che lamentano le ingerenze, con tanto di potenziali conflitti di interesse, del vice della Marcegaglia Cesare Trevisani, amministratore delegato del gruppo ingegneristico Trevi.
Sono questioni molto tecniche che riguardano le regole per l’accesso a determinati appalti, ma dietro le quali si cela l’ampio malessere dei piccoli, travolti dalla crisi, senza più protezioni e punti di riferimento, ostaggi delle grandi banche, trascurati dal governo per il quale hanno votato e per il quale basta andare nelle assemblee del lombardoveneto continueranno a votare, rafforzando semmai il consenso verso la Lega Nord di Umberto Bossi, perché questo non è terreno di conquista per il Pd.
Vale per i costruttori ma per qualsiasi altra categoria, metalmeccanici, chimici, tessili e via dicendo.
Già, le categorie. «Vecchio reperto archeologico della struttura confindustriale, il suo vero Dna che però non ha più ragione d’essere», sostiene ancora Feltrin.
La distinzione in categorie produttive sopravvive perché c’è ancora il contratto nazionale di lavoro, ma le contraddizioni sono lampanti perché mettono insieme figure troppo diverse, Cipputi e il tecnico informatico, per esempio. Tramontata l’epoca del conflitto redistributivo, i loro obiettivi (da lavoratori dipendenti) potrebbero non convergere più. E poi, nel contratto nazionale convivono le grandi multinazionali manifatturiere, con al loro interno mega strutture di servizi, insieme alle piccole imprese quasi artigianali da pochi dipendenti. Oppure le multiutility a partecipazione pubblica (l’Enel di Fulvio Conti o l’Eni di Paolo Scaroni, che pagano salata la loro adesione a Viale dell’Astronomia e che per questo vogliono contare sempre più pure nella scelta dei vertici) e le medie imprese del "quarto capitalismo" flessibile e internazionalizzato.
Un "meticciato" confindustriale che finisce per generare immobilismo, tatticismi, poca strategia e nessuna visione. «L’effetto sostiene Feltrin è quello di una minestra insipida. Una mediazione continua, inconcludente, dorotea». Non è un caso che Marcegaglia, proprio sotto la spinta di Eni e Enel, abbia dovuto avocare a sé la delega sulle questioni energetiche e toglierla al suo vice Antonio Costato, colpevole di esternazioni poco apprezzate dai due megagruppi.
E non è un caso che la presidente avesse deciso di fare entrare nella sua squadra anche l’amministratore delegato della Finmeccanica (il più grande gruppo industriale a controllo pubblico), Pier Francesco Guarguaglini. Il passaggio non si è realizzato (mentre sono entrati John Elkann e Giorgio Squinzi) e non è chiaro perché. C’è chi dice che sia stato Tremonti a bloccarlo non ritenendo, dunque, scontata, tra circa un anno, la sua riconferma alla guida di Finmeccanica; c’è chi parla con insistenza, invece, di vicende di natura giudiziaria che lo riguarderebbero. Tant’è. Certo c’è anche in questo capitolo la plastica rappresentazione di come i confini siano divenuti mobili. Fino alla politica, quella domestica.
Emma Marcegaglia aveva scommesso sul nuovo governo. La sua elezione ha coinciso con l’avvio della legislatura. Diede una delega sostanzialmente in bianco al nuovo esecutivo di centrodestra a trazione leghista. Perché questo voleva l’imprenditoremedio del nord dove si addensa il 70 per cento degli associati. Poi è arrivata la Crisi con la rincorsa a chiudere tutte le falle, con il crollo della produzione industriale e della domanda. E ancora: l’asfissia creditizia, la montagna di cassa integrazione, le chiusure di fabbriche del nord. Esattamente lo scenario che acuisce gli interessi contrapposti interni alla Confindustria.
Perché ad esempio le grandi aziende possono andare sul mercato a cercare i capitali per finanziarsi o negoziare direttamente con gli istituti di credito; i piccoli, quasi il 97 per cento degli iscritti, non possono farlo.
Il caso degli incentivi all’auto è emblematico: Berlusconi li ha concessi solo dopo le decisioni degli altri governi europei, ma la Confindustria non li ha mai chiesti. Marcegaglia, piuttosto, si è battuta con Tremonti per la moratoria dei crediti e il fondo di garanzia. L’unico suo risultato concreto. Ma chi ha strappato di più?
Ha scritto Giuseppe Berta, storico dell’industria alla Bocconi, nell’ultimo Annuario del lavoro: «La Confindustria non si distingue per la forza delle proprie proposte né delle proprie proteste. Si ritaglia uno spazio da comprimario. In nessuna occasione appare mai che la Confindustria voglia guadagnarsi il proscenio. La preoccupazione che predomina è quella di non perdere i contatti col centro di potere decisionale, ma in una forma piuttosto contenuta, come se temesse di sembrare troppo distante dal governo». Eccola la Confindustria low profile del Duemila. Per un po’ la sosterrà l’euro debole. Poi?