Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 24/05/2010, 24 maggio 2010
HIRONDUMANI
Gli Hirondumani apparvero per la prima volta nella sterminata mostra antologica che il Comune di Milano aveva organizzato nel Padiglione di arte contemporanea per celebrare Luigi Serafini. Adesso accolgono i visitatori nella prima esposizione romana dell’artista. Al Pac, l’installazione occupava tutto l’ingresso del Padiglione: una coppia di Hirondumani, marito e moglie, saliva su scale di legno appoggiate al muro dove, da enormi nidi di fango e paglia, spuntavano i becchi dei pulcini. Gli Hirondumani sono una specie strana: hanno le dimensioni degli umani, e anche le stesse gambe e le stesse mani, ma la testa è di rondine e indossano una marsina nera con lunghe code svolazzanti.
Nella Galleria LipanjePuntin di via Montoro 10 (tel. 06.68307780), dove la mostra «Serafhaus» resterà aperta fino al 3 luglio, un Hirondumane è in piedi accanto alla tavola, imbandita con un enorme uovo alla coque che levita a cinque centimetri sopra la tovaglia, e con un cucchiaio lancia pezzetti di uovo alla coppia di pulcini affacciati sul grande nido incollato vicino al soffitto. Al di là dell’installazione, le altre opere di Serafini sono appese alle pareti: si va da alcune tavole del suo celebre «Codex Seraphinianus» edito da Franco Maria Ricci nel 1981 e ripubblicato nel 2006 da Rizzoli, fino alle più recenti illustrazioni delle «Storie naturali» di Jules Renard, create per il sessantennale della Bur: foglie alte quasi un metro di piante immaginarie, che ospitano parassiti frutto di allucinazioni. Passando per i suoi dipinti ironici e visionari che reinterpretano celebri tele del passato, ma con i protagonisti colti nell’attimo della metamorfosi, come i generali dell’esercito napoleonico trasformati in carpe (ma con gli stivali) o la serie dei «Bovindo» con le mucche che hanno la parte posteriore in forma di cocomero (spesso affettata).
Difficile classificare l’arte di Serafini. forse per questo, per l’impossibilità di farlo entrare in un casellario, che gli innumerevoli nuovi centri di arte contemporanea spuntati di recente a Roma continuano ad ignorarlo? Nonostante l’artista sia da oltre trent’anni osannato da critici, scrittori e intellettuali di diversa estrazione. «C’è un’angoscia nell’immaginazione di Serafini che forse tocca i suoi vertici nella gastronomia. Eppure, anche qui si rivela la sua particolare allegria, espressa soprattutto dalle invenzioni tecnologiche: un piatto munito di denti che mastica i cibi, in modo che possano essere assorbiti con una cannuccia; un impianto d’erogazione di pesci come fossero acqua corrente, attraverso tubature e rubinetti, in modo d’aver sempre pesce fresco a domicilio», scrisse Italo Calvino. Federico Zeri definì l’universo immaginario di Serafini «un incanto eccentrico». Per Vittorio Sgarbi «la città serafiniana è un labirinto in costruzione, come un enorme anfiteatro più da visitare che da abitare». Federico Fellini, lo chiamò a collaborare per il film «La voce della Luna». Giorgio Manganelli ha messo in evidenza la «qualità singolare della fantasia grafica di Serafini: qualcosa che direi di ilarità senza gioia, anzi una sorta di cupezza, un fondo oscuramente maniacale, una iterazione magica e superstiziosa».
Serafini è amatissimo all’estero. La prossima grande mostra è prevista per settembre alla Yibo Gallery di Shanghai, Cina. Roma, niente. Eppure Roma è la sua città. qui che l’artista è nato, una sessantina di anni fa. In un appartamento dietro via di Ripetta cominciò a disegnare di getto, in un’afosa domenica di agosto del 1976, l’universo fantasmagorico del Codex. A piazza di Spagna, appena laureato in Architettura, aveva affittato uno studio di una stanza a mezza «con un socio francese molto snob ma senza una lira, che portava scarpe lucidissime e aveva l’ambizione di diventare artista. Catturava perciò ragnatele, le stendeva sui fogli bianchi e le fissava con una vernice a spruzzo». La sua casa-studio guarda il Pantheon da tutte le finestre.
Lauretta Colonnelli