MICHELE SMARGIASSI, la Repubblica 22/5/2010, 22 maggio 2010
NON CI SONO PIU I CAPOLAVORI DI UNA VOLTA - COSA
sono i capolavori, e perché ce ne sono così tanti? D´accordo: nel titolo della sua celebre conferenza del 1936, Gertrude Stein aveva scritto pochi. Ma oggi magari cambierebbe idea. Condannata a morte dalle estetiche del Novecento, capolavoro è parola vispissima e scalciante, ingrediente base del marketing di qualsiasi prodotto culturale, «I capolavori del giallo», «Capolavori dal museo Y»: dal circo dell´industria mediatica sembrano sparite le opere minori, o di scuola, o di genere, tutto è scintillante, al top, il meglio del meglio, altrimenti non vale la pena. Ed ecco che il neonato Beaubourg-bis, il secondo Centre Pompidou appena inaugurato nella cittadina lorenese di Metz, clonazione della celebre astronave parigina (in attesa che anche il Louvre produca la sua gemmazione decentrata a Lens), ce ne offre addirittura ottocento, di capolavori (firmati da circa duecento artisti: che fa la ragguardevole media di oltre quattro capolavori per artista), ottocento dipinti e sculture quasi tutti presi in prestito dalla casa madre, e tutti pescati là dove non avrebbero dovuto avere cittadinanza come tali: nel grande catalogo dell´arte moderna e contemporanea.
Vero è che il titolo della mostra inaugurale, visitabile fino a ottobre nella gommosa architettura di Shigeru Ban e Jean de Gastines, è Chefs-d´oeuvre?, dove il punto interrogativo è la strizzatina d´occhio del critico all´esperto, come dire: «Noi due lo sappiamo che i capolavori non esistono più, vero? Ma il volgo...». Del resto il direttore del nuovo museo, Laurent Le Bon, non fa mistero di aver dovuto fare i conti con la potenza del luogo comune: «Ero stufo di sentirmi dire che a Metz non ci sarebbero stati capolavori...», ma ha reagito come un curatore intelligente sa fare, con ironia, provocazione e senso critico: volete i capolavori? Eccovene a centinaia, eccovi anche la storia e la filosofia dell´idea di capolavoro, adesso però domandatevi se questa parola ha ancora un senso. In effetti, se qualche dubbio potrà venire davanti a La Muse di Picasso, al Bleu II di Mirò, al Number 24A di Pollock (sono davvero i rispettivi risultati supremi?), difficile battezzare "capolavoro" la Ruota di bicicletta di quel dinamitardo di Marcel Duchamp, oggetto prelevato, non creato ma designato con un semplice gesto, arte senza lavoro, e se non c´è lavoro come può esserci capo-lavoro?
La volontà d´arte si è da tempo trasferita dall´opera al processo, dalle mani del creatore alla sua mente. E dunque semmai è l´artista, oggi, il capolavoro di se stesso: quel che conta, quel che è unico e irripetibile, è solo il suo tocco da Re Mida, il suo brand, sparso su opere che sono solo verifiche di un concetto e possono confondersi tra loro. Designare "il capolavoro" di Jeff Koons o di Damien Hirst sarebbe semplicemente ridicolo. Può esserci capolavoro quando l´arte è seriale? Dov´è il pezzo unico e inimitabile quando ogni prodotto culturale tende alla ripetizione, quando ogni film o ogni romanzo di successo nasce già predisposto per il sequel?
Eppure, la sopravvivenza di questo bisogno di capolavori, la resistenza di questo concetto così universale e scontato che neppure i dizionari delle arti sentono il bisogno di definirlo (fate la prova: non c´è quasi mai nulla tra capitello e capriata), è davvero straordinaria, tanto da far pensare che sia una struttura perenne dell´estetica. Ma se nelle antiche botteghe il meisterwerk, il "pezzo da maestro" fatto seguendo rigorosamente la tradizione, era il contrario dell´originalità e dell´unicità, il mito opposto di capolavoro come opera assoluta, prodotto inimitabile del genio, vertice e sintesi perfetta dell´intera esistenza di un artista, che oltrepassa gli stili e le epoche e lascia senza fiato lo spettatore colto come il profano, è un´idea moderna, che nasce assieme al museo e al suo bisogno di possedere un criterio per giustificare il proprio diritto di selezione. In questo senso, capolavoro dovrebbe essere parente di classico: un classico, si dice, è un´opera che non ha mai finito di dire ciò che ha da dire. Ma adesso date un´occhiata alle code nei musei di oggi. Le folle che s´accalcano davanti al vetro antiproiettile della Gioconda del Louvre cercano forse di entrare in comunione con Leonardo per strappargli una nuova vibrazione intellettuale, o godono invece dell´emozione religiosa che dà l´essere in presenza di un´entità talismanica? Il capolavoro, oggi, è quel classico che ha smesso di dire, per limitarsi ad essere.
la doxa che fa il capolavoro. Il Capolavoro sconosciuto è un bel titolo di Balzac, un mito romantico, e una contraddizione in termini. Ma la fama è volubile. Ai suoi tempi Meyerbeer era più acclamato di Beethoven, e nell´Ottocento si vendevano più feuilleton che Flaubert. Non sappiamo se i libri di Stieg Larsson saranno "capolavori del noir" anche fra un secolo, ma ai lettori serve che siano definiti così adesso. Il capolavoro serve per confermare, non per sorprendere. E di conferme hanno fame quei fruitori volonterosi, ma resi sempre più ansiosi dagli "oggetti ansiosi" dell´avanguardia, che pretendono ansiosamente di avere sottomano quei canoni, quelle gerarchie di valore che sono sempre meno in grado di ricavare da soli. L´esistenza del capolavoro rassicura. Ed ecco che il Figaro, con beffardo contropiede sulla mostra del nuovo Pompidou, lancia un sondaggio: votate il capolavoro del XX secolo, vinto dalle misteriose Damoiselles d´Avignon di Picasso, staccando a sorpresa (37% contro 24%) la più serena e immediata Danse di Matisse; per la letteratura trionfa Céline: vuol dire che il pubblico non ha paura di affrontare la difficoltà di un´opera, purché sia stata in qualche modo già convalidata.
Da chi? Chi consacra i capolavori? Le istituzioni culturali, parrebbe. Eppure non aveva torto André Malraux a osservare che i templi della cultura sanno porre, persino «in modo pressante», la domanda «cos´è un capolavoro?», ma non sanno fornire la risposta. Più verosimile trovarla nei cataloghi delle case d´aste o nei listini dei galleristi che "fanno il mercato" Comunque ci sono almeno due categorie di persone che sembrano sapere perfettamente dove trovare un capolavoro: i ladri (s´è visto pochi giorni fa a Parigi) e i turisti. I pullman dei picture-goers si avviano con sicurezza in pellegrinaggio verso gli originali di opere già viste e ampiamente consumate in riproduzione. Il capolavoro è quell´oggetto che, con buona pace di Walter Benjamin, emana un´aura non cancellata ma accresciuta all´infinito dalla sua riproducibilità tecnica. In fondo esiste un criterio sicuro per sapere se un´opera sia annoverabile oggi tra i capolavori: è quella che trovate in vendita nello shop del museo, stampata sui posacenere o sulle magliette. A dispetto di tutti i punti interrogativi.