Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  maggio 23 Domenica calendario

SANTORO CI CHIESE IL VOTO PER LASCIARE LA RAI"

A questo punto facciamo un po’ di chiarezza». Giorgio Van Straten, consigliere di minoranza del cda della Rai, torna sul caso Michele Santoro ripartendo proprio da quella lunghissima anteprima di giovedì scorso di «Annozero».
Consigliere, lei, Zavoli, Berlusconi, i giornali, siete tutti finiti nel mirino di Santoro: come le è sembrata l’ultima puntata di «Annozero»?
«Per la verità a quella domanda di Santoro a Zavoli, ma rivolta anche a noi consiglieri di minoranza, io avevo già risposto due mesi fa».
Come, due mesi fa, perché?
«La trattativa è partita oltre due mesi fa. Santoro venne da noi. Chiese un incontro a me e al collega Nino Rizzo Nervo. In quell’occasione ci mise al corrente di un possibile accordo che stava discutendo con la direzione generale della Rai. Sostenne che nella condizione attuale probabilmente sarebbe stato meglio che non continuasse a fare ”Annozero”».
E lei cosa rispose?
«Che proprio per le ragioni cui Santoro faceva riferimento sarebbe, invece, stato meglio che proseguisse con la conduzione del programma. Sottolineando, tra l’altro, che avremmo fatto di tutto per difendere quel talk show ma anche tutte quelle trasmissioni che contribuiscono a creare una condizione di pluralismo all’interno del servizio pubblico televisivo».
Ma Santoro, poi, ha agito diversamente e autonomamente senza tener conto delle sue valutazioni?
«Quando il presidente Garimberti ci ha consultati in vista del cda sul caso Santoro ci ha detto che il giornalista stesso aveva posto come condizione per il buon esito della trattativa un voto ampio di maggioranza».
Valutazioni diverse, dunque, alle sue e a quelle di Rizzo Nervo...
«Presumibilmente è così. Magari ha anche tenuto conto delle nostre valutazioni, ma ha fatto altre scelte».
Come nasce la trattativa con il dg della Rai?
«Da molti anni esiste, diciamo, un caso Santoro a viale Mazzini. E Michele ha ragione nel ritenere che il suo lavoro è sempre stato difficile, complicato e fortemente logorante. Probabilmente in questo clima è maturata la decisione. Una decisione, lo ribadisco, sulla quale già due mesi fa avevamo dato una risposta, insistendo, tra l’altro, che un’eventuale rinuncia a Santoro avrebbe significato una perdita per l’azienda sia in termini editoriali che commerciali».
Lei sarebbe disponibile a dire a Santoro di restare?
«L’ho già fatto. E ho anche motivato le mie ragioni. Certo non posso garantire a Santoro, visto che l’azienda viene gestita in una logica di maggioranza e minoranza, e quindi politica, che il suo lavoro si svolga senza intoppi. Poi sa che le dico?...».
Cosa, consigliere...
«Che Santoro, magari, potrebbe chiedere di andare anche su un’altra rete, dove magari sarebbe anche meglio supportato».
Certo è, però, che le cifre di questi ultimi giorni sulla «liquidazione» del conduttore di «Annozero» e il contratto per 14 docufiction in due anni qualche malumore lo hanno generato...
«Questo è ingiusto. E’ una polemica decisamente fuori luogo. Santoro in Rai guadagna molto bene, come del resto molti altri che hanno successo e portano introiti pubblicitari nelle casse dell’azienda. I conti per la sua uscita anticipata dall’azienda sono il frutto di quanto maturato in questi anni. Per quel che riguarda il resto, Santoro fornirà dei prodotti che la Rai acquisterà allo stesso prezzo di mercato con cui acquista altri prodotti del genere, forse anche un po’ meno».
Ma chi prenderà il posto di Santoro su Raidue?
«Nell’immediato credo che nessuno voglia raccogliere un’eredità così difficile».[FIRMA]FABIO MARTINI
ROMA
Alla fine Pier Luigi Bersani è talmente compiaciuto per i due giorni di dibattito senza veleni, che dal palco si mette a fare il gigione con una verve inusuale. L’incipit della replica finale al ”parlamentino” Pd è eloquente: «Sto partendo per la Cina e mi tocca perdere la partita, pensate che vitaccia è questa: la sento come una profonda ingiustizia!». E poco dopo utilizza un linguaggio ”pop”, persino ”hard”: «Sono per far uscire da questa assemblea una figura eroica: ci sono insegnanti che vanno nei quartieri periferici dove il degrado è più forte e seguono uno ad uno i ragazzi, mentre la Gelmini rompe i coglioni!». Dagli ottocento del ”parlamentino” democratico si alza l’applauso più lungo della due giorni, battimani liberatorio verso un leader che ci tiene a fare l’anti-personaggio e anche per questo finisce per fare colpo le rare volte in cui va sopra le righe. Per il Pd, partito che non ha mai vinto una elezione e in tre anni ha cambiato tre leader, doveva essere l’occasione del ”cambio di passo”, la capacità di affidare agli elettori un messaggio nuovo: basta politicismi, ci vogliamo occupare di voi e dei vostri problemi.
Complici la congiuntura (la seria crisi economica, la crescente divisione della maggioranza) e un generale sfinimento da guerriglia interna, per una volta sono stati evitati i colpi bassi, anche perché - per dirla con un’espressione di Giorgio Tonini che è stata poi sposata da Massimo D’Alema - «dobbiamo confrontarci con franchezza ma senza malanimo». E così, l’Assemblea nazionale ha potuto approvare all’unanimità una serie di documenti tematici, che dovrebbero ”parlare” agli italiani finora insensibili alla predicazione democratica. Ma proprio sul terreno scelto da Bersani - il profilo e il progetto del Pd - in assemblea si è sviluppato un dibattito svincolato dagli schieramenti. Pietro Ichino, sostenitore di un contratto unico di ingresso a tempo indeterminato, ha criticato la parte del documento sul lavoro nella quale «per i ”paria” i lavoratori di serie B, si prevede ”una graduale introduzione dei diritti dei lavoratori”. Ma è come se 40 anni fa in Sudafrica ai neri avessimo detto ”non possiamo farvi sedere subito allo stesso ristorante dei bianchi...”» e dunque «si lavori per superare l’apartheid verso i precari». E ancora: «Un partito del lavoro non può avere come socio di riferimento soltanto la Cgil». Un intervento avvertito come scomodo (Rosy Bindi comincia a bussare sul microfono ancora prima che Ichino abbia esaurito il suo tempo), ma applaudito, mentre un personaggio che non ha più nulla da perdere come l’ex candidato governatore in Campania Vincenzo De Luca ha potuto dire quel che molti quadri rimuginano tra loro su un partito che rischia di apparire «impotente e incomprensibile a gran parte degli italiani», che non «riesce più ad intercettare né l’Italia dinamica né quella arretrata», perché percepito come «transitorio» e guidato da un «gruppo dirigente stanco, consumato, autoreferenziale, privo di capacità di comunicazione». Memorabile - o di dubbio gusto, a seconda dei punti di vista - la battuta sui giovani dirigenti del Pd: «Fallofori in processione». Sull’urgenza di allargare il campo degli interlocutori sociali ha insistito Tonini: «Il nostro consenso oramai è strutturalmente minoritario, sia geograficamente - siamo il partito del centro Italia e poco più - sia socialmente: siamo maggioranza solo nel ceto medio urbano intellettuale, prevalentemente pubblico, segmento pregiato ma insufficiente e invece siamo minoranza - e questo dovrebbe non farci dormire la notte - in tutto il mondo della produzione, operai, artigiani, lavoratori autonomi, imprenditori, persino giovani precari». Per Sandro Gozi sarebbe ora di non ripresentare più in Parlamento «ex segretari di partito, ex dirigenti, ex ministri». Ma Bersani è convinto di aver iniziato ad invertire la rotta: «Non venite a dirmi i problemi che abbiamo, li conosco. Aiutatemi a risolverli, sentitevi tutti un po’ segretari». La manovra del governo? «Pagheranno i ceti medio-bassi e come fanno a dire che vogliono fare la lotta all’evasione, se arriva un mega-condono?».