Giuliano Ferrara, Corriere della Sera 22/05/2010, 22 maggio 2010
SWIFT, L’ULTRA’ DEL RELATIVISMO CHE ELOGIAVA LA MENZOGNA - I
l nostro autore di satira politica, spirito vocazionalmente antimessianico, ha in dispregio ogni tentazione consolatoria, ogni possibile illusione di salvezza e perfino di salute. Non era un tipo corretto, Swift. Non era sano. Non era pulito. La sua prosa caustica ha un retrogusto scrofoloso, come quella del dottor Johnson. Non era caritatevole con le stoltizie sapute del secolo e neppure misericordioso in generale. Era spietato. Si adirava per un nonnulla, ma non si sarebbe mai indignato per alcunché. Re delle interpretazioni, era appunto nothing if not critical. Ma non era tritical, come reca sprezzantemente il qui presente saggio in cui la critica (critical) è impastata con la trivialità (trite) dentro un grottesco neologismo. Del moralismo Swift tratteneva l’ elemento scettico e opaco, perfino cupo, che nobilita un orientamento altrimenti da considerare spregevole (Giovanni Macchia sui moralisti classici). Aveva in uggia tutti i racconti e miti pseudoveritativi del suo tempo, la medicina e la scienza dell’ Accademia di Lagado sopra ogni altro. Avrebbe fatto volentieri a pezzi qualunque illusione antropologica (arrostiti allo spiedo i padri del Vaticano II), qualunque dieta pro benessere e qualunque benevolenza medica (non un minuto di tregua a Umberto Veronesi e don Verzè), qualunque sfiducia o fiducia nei mutamenti climatici (Al Gore ne sarebbe uscito a pezzi). Swift era l’ estroso e geniale estremista del relativismo (Gianni Celati), piccolo nel paese dei giganti e gigante nel paese dei lillipuziani, scrittore e mitografo arcaico e moderno. Se dannava la menzogna politica, e la ritraeva magistrale con colori che reggono alla prova di due secoli, lo faceva per segnalare la debolezza congenita della verità, la sua storicità o il suo «accadere» (come direbbe il contadino dello Schwarzwald). Il Decano ha nel mirino l’ ambivalenza connaturale alla politica, alla norma, al canone della vita civile. In un qualche senso, forse perfino remoto a lui stesso, questa ambivalenza la celebra. Swift era un osservatore spregiudicato della natura sofistica della società politica, specie nell’ ambito delle forme sempre più compiutamente partiticoborghesi e parlamentari delle istituzioni inglesi. Sapeva che la bugia è democratica, che è la forma propria della democrazia assembleare ed elettorale. Dichiara l’ obiettivo: capire «il sistema moderno» della menzogna per come «è stato coltivato in questi ultimi vent’ anni nella parte meridionale della nostra isola». L’ allure del suo discorso è quella chiaroveggente del filosofo classico, di chi conosce i problemi dell’ Atene del V secolo, il governo eristico della tribù riunita, la dissacrazione progressiva della norma, del nòmos che si sveste del suo paramento naturale-divino e del suo nucleo razionale, per divenire convenzione antropologica priva di fondamenti intoccabili, decisione irrazionalmente dipendente dall’ orientamento di una maggioranza. Dubito che Swift avrebbe anche solo capito, per non dire apprezzato, i proceduralismi liberal-democratici dei parrucconi e giureconsulti italiani da battaglia o il sistema perfezionato da Hans Kelsen e definito come «positivismo giuridico». Il suo eminente spirito di misantropologo conservatore lo si registra quasi a ogni riga, ma specialmente quando scrive che «alcuni sono estimatori delle repubbliche poiché vi prosperano gli oratori, grandi avversari dei tiranni; io penso tuttavia che un solo tiranno sia da preferire a una coorte di tiranni. E poi questi oratori infiammano la gente la cui collera altro non è che un breve accesso di follia: Ira furor brevis est...(Orazio)». Per quanto sia grande la ripugnanza che il Decano prova per la ruling class bugiarda, per la dittatura solitaria della menzogna nell’ operato del singolo capo di partito e di governo, niente supera il metus e il disgusto che Swift espettora di fronte alla moltitudine nella sua numerica inconsapevolezza, nella sua veste deforme e caricaturale di mondo umanoanimale gulliveriano, e dunque di luogo eletto della menzogna e della diceria perché foro privilegiato della credulità. Swift se la prende con «un certo grand’ uomo famoso per questo suo talento» della bugia, che tiene «in costante esercizio». Non possiamo non pensare al più grandiloquente e vivace degli italiani contemporanei, al campione assoluto della critica o della tritica italiana ed europea di oggi, quando l’ Autore scrive del grand’ uomo che «la superiorità del suo genio consiste solo ed esclusivamente in un’ inesauribile riserva di menzogne politiche, che egli prodigalmente distribuisce non appena apre bocca, e che con incomparabile generosità dimentica e conseguentemente contraddice nella mezz’ ora successiva» («mente sapendo di smentire», come direbbe il comico genovese Dario Vergassola). lui questo statista che «non ha mai preso nemmeno in considerazione se una proposizione qualsiasi fosse vera o falsa, ma solo se fosse opportuno per la circostanza del momento o per la compagnia presente affermarla o negarla». Il revulsivo suggerito dal corsivista medio contro il suo fantasma politico degli ultimi vent’ anni in questa penisola italiana non è molto diverso da «quell’ unico rimedio che è il supporre di aver udito qualche suono inarticolato privo di qualsiasi significato» suggerito dal Decano di San Patrizio per salvarsi dalla losca lotta politica in Inghilterra. Pare di leggere i giornali di ieri e quelli di domani. La brutta notizia per i nostri esteti e retori della politica onesta, ora che potrebbero essersi rincuorati nel mal comune attraverso i secoli, è però nella diagnosi infausta sull’ efficacia della menzogna politica. Poiché alcuni, sostiene Swift, pensano che la coattiva ripetizione della menzogna può stancare il pubblico: «Ma si sbagliano di grosso» aggiunge. Il più grande bugiardo «ha i suoi creduli» sempre e «spesso accade che se una menzogna è creduta solo per un’ ora, ha già svolto il suo compito» e quando la gente si ricrede «è troppo tardi, la beffa è finita». Solo per un’ ora. Lo smarrimento dell’ Europa di fronte ai populismi ingannevoli è testimoniato dallo stile non necessariamente elegante, ma aristocratico e distaccato, divenuto di moda tra le classi dirigenti democratiche. Gente che dovrebbe avere impressa nel cuore un’ antropologia positiva, testimoniata per decenni dai lendemains qui chantent, si ritrova timorata e perplessa di fronte al plebeismo e alle scorciatoie degli arruffapopolo. I populisti sono bollati come «agitatori politici», tribuni addetti alla bassa manovalanza politicante e i popoli sono giudicati insopportabilmente creduloni. Sono bestie da allevamento intorno alle cui teste le bugie volteggiano come sciami di insetti festosi, direbbe Swift, mentre la verità arranca e zoppica. I popoli di questa nostra penisola, è la virtuale testimonianza del nostro Autore a un qualche festival di Mantova o a Radio Tre, «sono rimasti per quasi vent’ anni sotto l’ influenza di organismi e persone il cui principio e interesse è stato di corrompere i nostri costumi, di ottenebrare i nostri intelletti, di prosciugare le nostre ricchezze e con il tempo di distruggere le nostre istituzioni nell’ ambito sia della chiesa che dello Stato». Quasi vent’ anni. Intelletti ottenebrati, eppure senza tv. Costumi corrotti, ricchezze prosciugate, istituzioni ecclesiali e statuali distrutte. I Caimani non conoscono stagioni e si ripresentano sempre sotto le stesse sembianze di menzogna sistemica alle scadenti platee che terrorizzano e schifano l’ élite. Ma c’ è ancora un’ altra sorpresa nel testo. La menzogna è lurida, oscena, ma legittima; e appartiene anche al popolo come soggetto politico, non solo all’ umanità di bacherozzi e vermi striscianti che fa inorridire il gigante di Brobdingnag. Inoltre bisogna saper mentire e far durare la menzogna e non è serio affidarla ai giornalisti, ai cronisti, che non sono capaci di essere buoni mascalzoni. La menzogna meglio detta, e che tiene il cartellone da più secoli, è quella della transustanziazione propalata dalla «chiesa di Roma», forse un esemplare della bugia di prova, quella che «serve a saggiare il grado di credulità», quella «che se uno se la beve, si può essere certi che manderà giù ogni cosa». Swift è blasfemo e provocatorio e grande per le sorprese malinconiche, per i paradossi, per i paralogismi schizofrenici o schizofasici, non per le tesi che enuncia. Lo si ama o lo si odia, lo si legge o lo si censura per il gusto della contraddizione e dell’ aporia infinita, timbri della sua ironia ben riparata dietro il sarcasmo, il polemismo, l’ attacco dentato ai nemici di un momento e ai luoghi comuni del modello moderno di società. La menzogna politica risponde addirittura a una qualità dello spirito, «la predisposizione al malizioso e al miracoloso». Nessuno ha diritto alla verità in una monarchia parlamentare o in una repubblica, tanto meno il popolo che secondo i mediocri demagoghi è idolo titolare di ogni diritto, quello a una onesta informazione compreso. Non è infatti vero che «il diritto di coniatura delle menzogne politiche competa esclusivamente al governo»; se il governo sia democratico, come quello dell’ Inghilterra, allora «il diritto di inventare e diffondere menzogne politiche spetta in parte anche al popolo». La bugia è il contropotere, il contropotere è una bugia: Swift non è mai tanto genialmente machiavellico, interprete del senso sofistico di una democrazia che sta diventando moderna, come quando spiega che «al buon popolo di Inghilterra non rimane altro mezzo per far cadere un ministero e il governo di cui è stufo, se non l’ uso di questo indubbio diritto» di mentire; e anzi, conclude lapidario, «l’ abbondanza di menzogne politiche è un chiaro segno della vera libertà inglese».
Giuliano Ferrara