Paolo Biondani, L’espresso, 27/5/2010, 27 maggio 2010
I MIRACOLI DI MISTER BONDI
Dalle stalle alle stelle. Alla fine del 2003 Parmalat era il buco nero del sistema, una specie di simbolo della mala finanza: debiti per 15,5 miliardi di euro, vent’anni di bilanci falsi, 36 mila dipendenti e decine di fabbriche in fallimento, 85 mila risparmiatori danneggiati solo in Italia. In questi sette anni è cambiato tutto. La crisi mette a rischio perfino gli Stati sovrani, i titoli tossici affondano banche, industrie e assicurazioni, i debiti ipotecano il futuro di tutta l’economia? La nuova Parmalat continua a produrre profitti, sebbene siano quasi esauriti i risarcimenti giudiziari: fatturato e margini in crescita, utili netti per 48,5 milioni nel primo trimestre 2010, bilanci e controlli citati ad esempio dai più temuti magistrati milanesi, una riserva di liquidità da un miliardo e mezzo di euro. Che alimenta il progetto di una grande acquisizione italiana all’estero.
Il caso Parmalat, oggi, è la storia di un’anomalia che si è capovolta: l’azienda nata a Collecchio va bene, il problema è il resto del pianeta. E questo ribaltone ha un nome e un volto: Enrico Bondi, 75 anni, chimico di Arezzo, figlio di contadini, con la vocazione di risanatore di industrie in crisi. La sua normalità sembra un’eccezione. Tra tante star degli affari, imprenditori dell’immagine, politici arricchiti, banchieri che controllano giornali e finanzieri che ostentano lussi sfrenati, lui veste ancora in "grigio Mediobanca", dicono senza scherzare i suoi collaboratori. Ai ristoranti alla moda preferisce la trattoria parmigiana delle sorelle Picchi. Alle isole esotiche, il suo piccolo uliveto sulle colline toscane. Sposato, due figli, parla solo se obbligato, per fare il testimone in tribunale o presentare i conti al mercato. E mai di sé. La sua riservatezza è proverbiale. Per capire il personaggio, basta appostarsi all’uscita del palazzo milanese che ospita il suo quartier generale, un piano in tutto, in una piazza defilata a due passi da Porta Romana, e provare a blandirlo per una dichiarazione: Parmalat è diventata un esempio, il latte è tra i pochi settori anti-ciclici che resistono al crollo delle Borse, ci dica almeno due parole, tanto scriviamo lo stesso. Unica risposta, con vistoso aggrottarsi di ciglia: "Non si potrebbe fare a meno di scriverlo, questo articolo?".
Visto da chi gli sta vicino, Enrico Bondi è il contrario di quel che appare. Per la stampa economica è sempre stato "l’uomo delle banche". Ma i banchieri italiani lo hanno licenziato già tre volte. E gli americani di Citibank hanno tentato di cacciarlo anche da Parmalat. Rimasto in sella, ha guidato una guerra giudiziaria che ha costretto una trentina di istituti a risarcire, finora, la bellezza di 2 miliardi e 160 milioni. Ai processi di Milano e Parma, si è assunto la responsabilità di giurare che "il dissesto di Parmalat era conoscibile dai banchieri almeno dal ’97: bastava confrontare quei bilanci mostruosamente falsi con i debiti registrati nella centrale rischi". Gli avvocati insorgono: "Conoscibilità non significa effettiva conoscenza". Lui guarda i giudici, stringe il pugno e fa il gesto di gettare qualcosa sul pavimento: "Il mestiere del banchiere dovrebbe essere di controllare chi merita credito. Io sono un chimico. Se butto per terra la nitroglicerina, devo sapere che esploderà tutto".
Franchezza toscana, quando serve. E riserbo assoluto come stile di vita. La sua biografia è un capitolo di storia contemporanea: i segreti del capitalismo italiano. Si narra che Mister Bondi, l’uomo che risolve problemi, avesse imparato la virtù della discrezione dal suo nume tutelare, Enrico Cuccia, il numero uno della storica Mediobanca, per decenni il vero potere forte. Errore: l’odierno signor Parmalat era abituato al silenzio molto prima di conoscere Cuccia. Un’abitudine da militare, legata a un curriculum che spiega anche il suo piglio autoritario. Prima assunzione alla Montecatini, nel 1957, dove si mette in luce nei laboratori chimici: "Fra tanti ricercatori, lui era un trovatore", motteggiano i suoi collaboratori. Quindi passa alla Snia e da qui all’industria militare. Dal settore aerospaziale, entra nel gruppo Fiat e fa carriera alla Gilardini. Dove si lega a Cesare Romiti. L’incontro con Cuccia coincide con la prima crisi. Mediobanca gli affida la Torviscosa, storica fabbrica di cellulosa che rischia il crack. Lui taglia, ristruttura e salva il salvabile. Dopo un anno Cuccia lo chiama a rapporto. E approva. Allora bastava meno di un’ora di colloquio per decidere tutto. E così il chimico Bondi diventa l’inviato speciale di Mediobanca. E dal suo osservatorio assiste alle sconfitte che segnano il tramonto di Cuccia: dal grande no all’Ambrosiano, nell’erronea convinzione che l’ex istituto di Calvi fosse condannato a morte, agli stop ai maxi progetti di fusioni bancarie.
La consacrazione arriva con Mani pulite. L’anno chiave è il ’93. I fondi neri e la malafinanza rischiano di affondare il colosso Ferruzzi-Montedison. Nell’ufficio del pm Francesco Greco si presentano Enrico Bondi e i suoi fidati consulenti Guido Angiolini e Umberto Tracanella. Presidente è Guido Rossi, che non sopporta il carattere ruvido del manager e lo accosta a Romiti con una battuta rimasta celebre: " la brutta copia di un cattivo esempio". Dei due capi, però, resta Bondi. E poi gli economisti celebrano la sua ristrutturazione, senza fallimento, di 31 mila miliardi di lire di debiti lordi.
Il caso vuole che la cifra sia identica al passivo (questa volta, però, quasi netto) accertato dieci anni più tardi dal tribunale fallimentare di Parma. Fatto sta che nel dicembre 2003, a Milano, mentre per Calisto Tanzi scattano le manette, al capezzale di Parmalat si riaffaccia la stessa squadra del 1993: pm Greco, nuovi amministratori Bondi, Angiolini e Tracanella. Sentito dai giudici come "testimone esperto", Bondi riassumerà così quei giorni di lavoro frenetico: "I nostri revisori hanno ricostruito in 24 ore tutto quello che le grandi banche e le autorità di controllo non avevano capito nei 14 anni precedenti. Ora l’unico mistero è dove sono finiti i soldi. Dalle casse della Parmalat sono stati sottratti 2,2 miliardi. Ma solo di un terzo si conosce la destinazione". Come dire che 1.500 milioni di euro rubati alla Parmalat sono finiti in tasca a qualcuno, che probabilmente non ha comprato solo quadri. questo il tesoro che Bondi e i pm di Parma continuano a cercare, dietro tante società off shore che potrebbero aver fatto da schermo anonimo a reinvestimenti insospettabili.
Quando fu chiamato a Collecchio dalle banche, Bondi pensava di restare nella fabbrica del latte "per un mese e mezzo al massimo", dicono i suoi fedelissimi: giusto il tempo di capire perché Parmalat, sulla carta ricchissima, faticava a pagare il bond da 150 milioni dell’8 dicembre 2003. Scoperto il disastro, avrebbe confidato agli avvocati di temere una trappola: "Mandano il pazzo nella fornace nella speranza che muoia bruciato". Sette anni dopo, il chimico è ancora lì. Il sistema che l’aveva cooptato non c’è più. La galassia Mediobanca-Generali ora ruota attorno al banchiere romano Cesare Geronzi, che per Bondi è un imputato del crack Parmalat. Ma è anche azionista (in crescita) dell’azienda che in teoria rischia di dover risarcire. Chi gli è vicino, dice che oggi Bondi non teme scalate: i fondi esteri che lo attaccavano puntando ai soldi dei risarcimenti, ora devono difendersi dalla crisi; il primo azionista (7 per cento) è il gruppo canadese Mackenzie Cundill, che invece gli chiede di usare la liquidità per un’acquisizione. E l’80 per cento del capitale è sparso tra migliaia di risparmiatori, che fanno di Parmalat l’unico modello italiano di public company: Bondi ha voluto premiare il popolo dei bond assegnando più azioni agli investitori più poveri. Tanto le grandi banche, come dimostra un suo dossier legale pubblicato dal "Sole 24 Ore", ci hanno comunque guadagnato: tra rivalutazione del capitale, interessi e commissioni d’oro ottenute ai bei tempi di Tanzi, hanno recuperato più di quanto abbiano perso con il crack.
In azienda, Bondi resta un manager di ferro. Che taglia i rami secchi. Si concentra sul latte, yogurt, formaggi e succhi di frutta. Vende le controllate indebitate, dalle merendine al Pomì, al Parma calcio. E licenzia i dirigenti storici che non centrano gli obiettivi. Ora gli uomini forti del gruppo sono Antonio Vanoli, che arriva dalla Ferrero, e Pierluigi De Angelis, direttore finanziario con un passato in Montedison e Lavazza. In azienda ha fatto rumore la sostituzione del capo per l’Italia, Leonardo Bonanomi, con Gioacchino Baldini, altro ex della Ferrero. Intanto Bondi continua a raschiare i costi per fronteggiare la concorrenza più insidiosa: il latte prodotto direttamente dai supermercati.
Già ai tempi di Cuccia i nemici lo chiamavano "l’uomo con la scure". Nella Telecom degli spioni è rimasto pochi mesi, nel 2001, ufficialmente perché mero "traghettatore" da Colaninno a Tronchetti, ma forse perché non è persona che accetti di farsi dirigere. E quando Gianni Agnelli, in punto di morte, era pronto ad affidargli la Fiat in tracollo, le banche lo hanno fermato. Il manager Paolo Fresco ha rivelato che Bondi chiedeva troppi sacrifici ai grandi istituti. E Geronzi, in una tempestosa riunione di Mediobanca, ha convinto i colleghi a mettere Maranghi in minoranza: addio Bondi. E così il "Marchionne mancato" è dovuto tornare in Fondiaria, a fare il lavoro di sempre: tagliare i debiti.
Quando si è insediato tra le rovine di Collecchio, il commissario ha indicato tre obiettivi: risanare davvero l’industria, risarcire i piccoli risparmiatori e far crescere Parmalat. Ora gli manca il più ambizioso: trasformare un gruppo "multilocale", cioè forte solo in Canada, Italia, Venezuela, Australia e Sudafrica, in una vera multinazionale. L’acquisizione, secondo gli esperti, potrebbe essere l’occasione per diversificare, magari in un paese emergente.
Con Mediobanca, che ha riportato Parmalat in Borsa, il rapporto resta solido. Suo figlio, Alessandro Bondi, è l’amministratore di Compass. Ma attorno è cambiato tutto. Mentre sfugge alle domande, con i suoi capelli grigi e l’andatura dimessa, Enrico Bondi sembra davvero un uomo solo. In azienda ama ripetere che il mondo degli affari non è popolato di santi, per cui "essere puliti è un costo, ma abbiamo il dovere di affrontarlo". L’ultimo superstite di un’Italia perduta. Il signor Parmalat sempre più solo contro tutti. Ma chi lo conosce, dice che non si è mai divertito tanto.