FABIO POZZO, La Stampa 21/5/2010, pagina 19, 21 maggio 2010
CHE FARE DEI PIRATI CATTURATI (2 PEZZI)
I comandanti pirati dell’epoca d’oro della Filibusta, quelli che innalzavano il vessillo nero con il teschio e due tibie (e sue declinazioni: in realtà il Jolly Roger più temuto era quello rosso, perché segnalava che non sarebbero stati fatti prigionieri), gareggiavano in ferocia: erano consuete le percosse, la tortura, il massacro e l’omicidio a danno delle loro vittime. L’Olonnaise, tanto per dire, strappava la lingua dei suoi prigionieri.
Ma anche i «buoni» - spagnoli, francesi, inglesi - non andavano tanto per il sottile: se non uccisi negli scontri, e non gettati o abbandonati in mare, i filibustieri venivano sottoposti a processi farsa che si risolvevano nell’inferno delle carceri galleggianti e/o nella forca.
Tre-quattro secoli dopo, siamo daccapo. Pochi giorni fa Aldar Akhmerov, il capitano della nave anti-sommergibile russa «Maresciallo Shaposhnikov», ha abbandonato su una zattera dieci predoni somali che si erano arresi dopo aver cercato di assaltare la petroliera «Università di Mosca». Con scarsi viveri e senza strumenti di navigazione, non hanno più raggiunto la riva. «Non avevamo l’ordine di ucciderli, ma solo di liberare la petroliera. Ecco perché li abbiamo lasciati andare», si è giustificato l’ufficiale.
nota l’insofferenza di Mosca verso la pirateria. Lo scorso novembre, il presidente Dmitri Medvedev aveva definito la nuova Filibusta una «comune minaccia» e aveva fatto appello a un approccio coordinato a livello internazionale. «Quando prendiamo i pirati non si capisce cosa si deve fare», aveva detto, aggiungendo - scherzando - che «si potrebbe fare come nel Medioevo quando si impiccavano, ma in questo caso si verrebbe meno al rispetto dei diritti umani...».
Il problema, di che fare, è reale. Da una parte ci sono i russi che abbandonano in mare i pirati. Dall’altra c’è lo Yemen, che di recente ne ha condannati sei alla pena capitale. In mezzo, ci sono danesi e olandesi che ne hanno lasciati altri sulle spiagge del Puntland, lo stato autonomo somalo. E a margine, ci sono gli Stati Uniti, forse l’unico Paese occidentale che finora si è preso la briga di processare in patria un predone del mare: è il caso di Abduwali Abdukhadir Muse, un appartenente al gruppo che assaltò il cargo Usa «Maersk Alabama» e che sequestrò il suo comandante, Richard Phillips, poi liberato dai Navy Seals; Abduwali è stato condannato dalla corte federale di Manhattan a 33 anni e 9 mesi di carcere.
La soluzione prevalente, come si evince dalla dichiarazione del comandante delle forze navali europee anti-pirateria riportata da Anne Applebaum in una sua inchiesta pubblicata da Slate.com, è il rilascio. «Su 400 pirati catturati negli ultimi tre mesi, solo 40 sono stati perseguiti. Gli altri sono stati rilasciati» dice l’alto ufficiale. In che modo, poi, «rilasciati», è tutto da vedere.
Perché accade ciò? Perché processare i nuovi bucanieri non è semplice. Bisogna raccogliere prove certe, i comandanti delle navi hanno altre priorità e non hanno tempo da perdere nelle dispute legali e diplomatiche, i tribunali del Kenya e delle Seychelles (che hanno accordi ad hoc con l’Unione europea) sono nel marasma. Non ultimo, i nuovi bucanieri, a dispetto di chi dice che sono solo poveri pescatori analfabeti, hanno imparato a destreggiarsi nei vuoti normativi. Applebaum ricorda il caso di alcuni di loro che un mese fa, dopo essere stati catturati dalla Marina tedesca, hanno citato in giudizio il governo di Berlino perché non poteva essere garantito un «processo equo» a Mombasa. E allora, che fare? Ecco così che l’abbandono in mare appare se non la soluzione migliore, l’unica. Magari dopo la classica passeggiata sulla passerella sospesa sull’acqua. «Così, bella mia, - disse Uncino a Wendy - ti toccherà vedere i tuoi bambini camminare sulla passerella...».
I pirati giudicati colpevoli erano condannati al patibolo. La «ballata dell’impiccato» era la danza di morte che s’improvvisava dopo l’esecuzione. I pirati scherzavano sull’impiccagione, ma la loro sicumera finiva davanti alla forca.
Il cadavere di William Kidd, incatenato ad un palo nel porto di Londra, fu sommerso tre volte dalla marea, come prescriveva l’Ammiragliato. I corpi erano lasciati appesi alla forca o incatenati in una gabbia di ferro, come monito.In alternativa alla forca c’era il carcere, luogo malsano dal quale era difficile uscire vivi, salvo per uno scambio di prigionieri. Temibili quelle galleggianti, ricavate in navi in disarmo o pontoni da inglesi e francesi: umide, affollate; unica razione pane ammuffito, carne putrida, acqua salata.
FABIO POZZO
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ontrammiraglio, lei che è un esporto di diritto marittimo della Marina Militare italiana, può spiegare perché è difficile perseguire i pirati?
«La Convenzione internazionale di Montego Bay stabilisce che la pirateria è un crimine contro l’umanità e che tutti gli Stati possono perseguirlo. Il problema sorge nella giurisdizione: per arrivare a un processo, occorre che lo Stato che catturi i pirati preveda tale reato nel suo ordinamento interno, cui la ”Montego Bay” rimanda. Ma non tutti gli Stati hanno norme ad hoc. Le ha l’Italia, ma non ad esempio la Spagna. Laddove si può intervenire, poi, sorgono altri problemi: stabilire la prova certa, l’evento si è verificato all’estero, i pirati possono eccepire mille cavilli e, non ultimo, se rilasciati nello Stato che li ha giudicati, possono chiedere asilo politico...».
Una brutta gatta da pelare, insomma. E l’Italia che fa?
«Due decreti prima, e una legge poi, stabiliscono che si può processare solo quei pirati che hanno attaccato una nave italiana. In tutti gli altri casi, ci si rifà agli accordi siglati tra l’Ue, Kenya e Seychelles, affinché siano questi ultimi a giudicare i fermati. Il Kenya lo ha fatto per un certo periodo, forte anche dei 5 milioni di finanziamento dell’Unione. Ma adesso ha detto stop, perché non sono arrivati più fondi».
Altre soluzioni?
«Tribunali e prigioni internazionali ad hoc. Ma non tutti gli Stati sono d’accordo. Sembra più percorribile l’idea, sostenuta anche dalla Russia, di speciali camere giudicanti presso tribunali locali, purché garantiscano standard internazionali e siano formati anche da membri di organizzazioni sovranazionali. Ma dove farli? In Kenya, Tanzania? Se ne sta parlando da due anni... Così come di considerare la pirateria quale terrorismo marittimo, anziché un crimine nazionale, ai fini processuali. Ma se anche fosse, il problema di che fare dei pirati restebbe».