Imma Vitelli, Vanity Fair n 20, 26 maggio 2010, 26 maggio 2010
MEDINE, 16 ANNI SEPOLTA VIVA
Un giorno, era inverno a Kahta, il telefono squillò negli uffici del capo della polizia, il dottor Bulent Erkan. A chiamare era un abitante del quartiere Hurriyet, una zona popolare, nel nord della città. Suggeriva di dare un’occhiata al giardino dei Memi. Da settimane non si vedeva più in giro Medine, la figlia di 16 anni; in compenso si vedeva la madre piangere a fianco al pollaio, vicino al grezzo muro che separava la casa dalla via. Ai parenti, e ai
vicini. avevano detto che era scappata a Istanbul. Ma chi ci credeva?
Poco era cambiato, dal di fuori. Il nonno Fethi, in completo scuro, le scarpe lucide, andava a pregare cinque volte al giorno alla moschea locale dell’imam Yasin Bozkurt. Il padre, Ahmad, un signore zoppo e timido, si svegliava ogni manina all’aiha e andava a fare il pa-
ne nel tórno di sua proprietà. Entrambi erano devoti musulmani e avevano fatto l’haj, il pellegrinaggio alla Mecca: erano anche tedeli dello sceicco Saycd Abdul Baki, che aveva fondato, indisturbato, tra le vette dell’Anatolia, una comunità islamica il cui tempo è fermo al VII secolo del profeta Maometto.
La mattina in cui ricevette la telefonata, il capo della polizia, un quarantenne esile dai capelli radi, prese otto agenti e un muratore, e bussò perplesso alla porta verde della casa a un piano.
Kahta, nella remota provincia di Adiyaman, è un reticolo di spoglie vie, orfane di colori, e di sorprese. Essendo pia, e dunque astemia, non ha i problemi di ordine pubblico scatenati dalla molesta ubriachezza di altri lidi. C’è, questo sì, un’immensa disoccupazione, all’80%,
e pari ignoranza (una simile percentuale ha solo la licenza elementare), ma di delitti ce ne sono pochi, e di turisti anche meno, in gita a Nemrut Dagi, l’antico santuario del rè Antioco.
Quel giorno, il muratore scavò per ore,invano, seguendo le false indicazioni del nonno; poi intervenne, in lacrime, una bambina, la sorella di Medine, e col ditino puntò il pollaio, e sull orrore si alzò il sipario.
A emergere, per prima, fu una mano, le unghie distrutte nel tentativo di aprirsi un varco nel cemento. Il muratore, annichililo, mollò la pala e fuggì. La madre urlò: «Hanno ammazzato la mia bambina!».
Toccò agli agenti continuare il lavoro discavo, alla fine del quale riemerse Medine, seduta dentro una buca larga un metro, profonda un metro e mezzo, le mani legate e le braccia alzate, al collo una sciarpa con tré nodi, nessun segno visibile sul corpo.
Il nonno e il padre fecero, in principio, i vaghi. «La tipica psicologia del colpevole», mi dice il capo della polizia. «E anche quando trovammo la ragazza, non c’era tristezza nei loro occhi. Rimasero quieti, All’inizio dissero di non saperne nulla. Alla fine il padre mi disse
che la figlia aveva il ragazzo, li aveva visti, se lo meritava. Ha detto solo questo. Gli ho creduto. Abbiamo informatori, nel quartiere. Qui tulli sanno tutto di tutti. La gente sa, la gente parla. impossibile mantenere un segreto. Avere un ragazzo a Kahta non è consentito».
Il corpo fu spedito all’ospedale di Malatya per l’autopsia. C’era terra nella trachea e nei polmoni e nello stomaco, e un ematoma sul collo. L’anatomopatologo stabilì che la piccola era stata sepolta viva. Respirava, mentre suo padre e suo nonno la tumulavano in giardino
sotto le galline.
Gli echi della fine di Medine mi sono arrivati in una Istanbul bardata a festa, compiaciuta del suo status di capitale europea della cultura 2010.+, indifferente ai richiami dei suoi abissi. Storie orribili. di delitti medievali, che un’ottusa tradizione definisce d’onore, si sus-
seguono senza tregua nel pancione malato dell’Anatolia. Il codice penale, che un tempo concedeva attenuanti, e stato cambialo nel 2004, parte degli sforzi di riforma della Turchia per entrare in Europa. Eppure, di questi delitti, ogni anno se ne contano ancora almeno 200.
Yilmaz Akinci, fondatore del Centro per lo Sviluppo di Diyarbakir, dice che da quando è cambiata la legge, e il delitto d’onore e diventato omicidio premeditato, le famiglie si adoperano in altri modi. «Si lascia una pistola nella stanza della ragazza, o si appende al letto una fune, o si convince un fratello minorenne a eseguire la sentenza. Altre volte
mettono nel piatto un veleno per topi, e dicono che l’ha fallo da sola».
Questa storia della sepoltura da vive, tuttavia, è inedita. «Siamo tutti sotto shock», dice Sinasi Inan, un giornalista locale. «Qui si uccidono le ragazze ma non cosi, non con questi metodi disumani», ironizza Akinci. «Le si fucila, le si impicca, le si avvelena, ma no, no,
no, non si seppelliscono vive».
Siamo lì, a chiacchierare, in uno spartano ristorante di Kahta, e mi rendo conto di essere l’unica donna, in compagnia di tre maschi. Tollerata in quanto occidentale - poiché alle femmine qui non è permesso mangiare fuori, andare in bicicletta, o su Internet, e spesso neppure a scuola -, per ricordarmi il mioposto, il cameriere mi serve per ultima.
Nel caso di Medine, più che il padre, l’aguzzino era il nonno Fethi. Era, mi dice Sinasi, un usuraio e un trafficante d’armi. Importava ed esportava dalla Siria e dall’Iraq. Era, soprattutto, un violento. Quando il nonno picchiava la madre, Medine la difendeva, e si prendeva le botte anche lei.
Era bastonata di routine, ma non si possono fare domande, nel vicinato, perché la famiglia Memi ha minacciato di morte i forestieri che ficcano il naso. Di certo c’è che una volta andò alla polizia, e la polizia la riportò a casa. Un’altra volta, la sorellina chiamò il 113 e dis-
se: «Venite, mio padre sta picchiando mia sorella»: gli agenti trovarono la ragazza legata con una corda assieme alle mucche.
Ma esisteva un fidanzato? «Se esisteva, è sparito», dice Sinasi. Quando un alito d’amore s’insinua malandrino in queste oscure contrade, i ragazzi non si sacrificano mai. Dei ma-
schi le famiglie hanno bisogno, per portare a casa il pane; solo le femmine sono trattate alla stregua di uova marce.
A riconoscere il corpo, all’obitorio, fu chiamato il fratello del nonno, un sessantenne di nome Mustafa Meme. «Puzzava, era già in decomposizione», dice. un personaggio pubblico, a Kahta Fa il mukhtar, una specie di presidente di circoscrizione, ed è la prima volta che parla. Il giorno del nostro incontro, negli uffici di un suo amico, Mehmet Dag, sfoggia un completo scuro, e una rabbia che non riesce a prender forma, rivolta a tratti verso se stesso, a tratti verso il mondo. «Le persone sono come cani», dice. «Quando ho saputo del suo arrivo, in città, ho pensato di mandare qualcuno in albergo a minacciarla. Non ne posso più di giornalisti. A casa, ho dato un fucile a mio nipote e gli ho detto: ammazza chiunque si avvicini, che poi di te mi prendo cura io in prigione». Questo stesso signore ha telefonato a una delle mie fonti, il povero reporter locale, minacciandolo di morte.
«La stampa mente», dice. «Non è stato un delitto d’onore. Medine si lamentava col nonno, il nonno ha provato a spaventarla, poi l’ha vista a terra e si è fatto prendere dal panico, ha pensato che sarebbe finito in galera e l’ha sepolta». Intuisco che per quest’uomo il problema non è che la nipote sia morta, ma la modalità della sua fine. «Non esiste niente di più sbagliato di questo», dice. «Chi può mai accettare una cosa del genere?», chiede l’amico Mehmet. « una ferita, e parlarne è come graffiarla, riprende a sanguinare», dice il fratello dell’assassino.
Gli chiedo di spiegarmi che cosa sia successo. « stato uno scherzo del destino». Cerca le parole: «Come un incidente stradale. Un attimo e sei alla guida e stai guidando, l’attimo successivo ti sei distratto e hai investito qualcuno e quel qualcuno muore e la vita ti
cambia».
Mi rendo conto che la famiglia, per escludere l’omicidio premeditato, ha cambiato la sua versione. Alla ricerca di un appiglio che le restituisca la sua umanità, gli chiedo un ricordo di
Medine. «Non era una ragazza intelligente, era un poco svitata». Svitata? «Un po’ stupida. Stupida come le bionde, sa come si dice che le bionde sono stupide?», dice Mehmet.
Lo guardo. Mehmet è un maestro elementare, capo del sindacato degli insegnanti di Kahta, parte di quella nuova élite dell’Anatolia che ha decretato il successo elettorale del premier islamista Recep Teyyep Erdogan. «Sarebbe ancora viva se, dopo due o tré schiaffi, non fosse andata alla polizia», dice il mukhtar Mustafa. «Ti pare normale che una vada alla po-
lizia?». dice Mehmet. «Tu non sei il giudice, per cui posso dire la verità. Anche lei ha le sue colpe».
Comincia a mancarmi l’aria. Mi torna in mente la tomba grezza di mattoni grigi al limitare del cimitero, senza un nome, senza un fiore, che ho visitato nel pomeriggio. La pioggia batteva forte sul cemento della muratura, e sulla tremenda solitudine, in vita come in mor-
te, di Medine. Il mukhtar continua la sua tiritera; dice che Kahta è nel distretto curdo, e nel
resto della Turchia la gente pensa che i curdi siano animali. Dice che queste cose succedono in tutto il mondo, e si tradisce, perché è evidente che pensa ai delitti d’onore. Dice che i media turchi scrivono che accadono solo da loro, a causa dell’altitudine, la mancanza di ossigeno in montagna darebbe loro alla testa. «Dicono che siamo rimasti ai
tempi della jahiliya, l’età della barbarie antecedente alla venuta di Maometto, quando nel deserto si seppellivano vive le bambine. Ma non siamo primitivi, lo scriva. Siamo persone civili».
Gli chiedo, prima di congedarmi, quale sia stata la cosa più difficile. Questo, dopo tutto, è un uomo che ha riconosciuto all’obitorio il corpo in decomposizione della nipote interrata viva da suo fratello.
«Sono andato in prigione, a trovarli. Erano assieme (il nonno e il padre, ndr). Stavano mangiando. La Tv era accesa sul telegiornale. C’era un servizio su di loro. Siamo stati lì, incollati allo schermo, a sentire che cosa dicevano, e tutti assieme siamo scoppiati a
piangere».
Mi sono chiesta, andando via, se fossero lacrime di pentimento, ma ne dubito. Erano le lacrime di chi vede, certificata alla Tv, la propria fine agli occhi della gente. Al termine di questo pellegrinaggio nel buio della mente, speranzosa in uno spiraglio, faccio una chiacchierata con Yasin Bozkurt, l’imam della moschea dei Meme. un signore panciuto, coi
baffi e la camicia scura a righe: ispira fiducia. Medine, cui la famiglia non aveva mai permesso di andare a scuola, studiava con lui il Corano, l’aveva anzi completato. Di lei ricorda il velo, bianco e nero, e il volto aperto, e il corpo snello, e il fatto che no, non sapeva se parlava coi ragazzi, ma se anche l’avesse fatto, non meritava lei morte.
Del nonno, dice molte cose. Di come fosse risaputa la sua violenza, eppure non saltasse una preghiera; di quanto tenesse alla propria immagine, abiti nuovi e copricapo grigio e camicie ben stirate, eppure la moglie non dormisse più con lui, non lo sopportava;
di come avesse bisogno dell’approvazione dei vicini, cui offriva pesce e cene; di come fosse «ignorante, ma proprio ignorante», e «non sapesse proprio niente dell’Islam». Di come fosse arrogante: «Un giorno, ho annunciato che avremmo abbellito la moschea con una nuova decorazione di legno. Fethi mi invitò a casa per mostrarmi la sua, così che io potessi copiarla. Andai, vidi e gli dissi: ma questa è molto piccola, per la moschea abbiamo biso-
gno di una cosa grande. Non mi parlò per un anno».
Aveva, forse, l’imam intravisto l’indicibile? Aveva capito che era capace di tanto? Mi risponde raccontandomi un episodio. Al ritorno dall’obitorio, dopo l’autopsia, Medine fu interrata senza che una preghiera consolasse le sue tormentate spoglie. Per porvi rimedio,
l’imam organizzò una piccola cerimonia funebre, cui parteciparono tré vicini e il mukhtar, il fratello del nonno. «In macchina, di ritorno dal cimitero, avevo un pensiero fisso: come ha potuto? Sapevo che ne aveva le potenzialità malvagie, agiva come un tiranno, picchiava la nipote. Poteva farlo. Ma come ha potuto? Di fianco a me, sedeva il fratello. Lo chiesi a lui. Mi rispose: quell’uomo è il Male».