Sergio Romano, panorama 27/5/2010, 27 maggio 2010
Quel vecchio re muto è l’emblema di una crisi che non lascia tante speranze alla Thailandia. E la Cina gongola – Prima di provare a capire le ragioni di ciò che accade in Thailandia conviene prestare attenzione a due fattori
Quel vecchio re muto è l’emblema di una crisi che non lascia tante speranze alla Thailandia. E la Cina gongola – Prima di provare a capire le ragioni di ciò che accade in Thailandia conviene prestare attenzione a due fattori. Il primo, economico, è rappresentato dalla straordinaria crescita del paese nel corso degli ultimi tre decenni. Il pil (prodotto interno lordo) è aumentato mediamente del 9,5 per cento dal 1985 al 1996. Come altri stati asiatici la Thailandia è stata duramente colpita dalla crisi del 1997-98, ma si è ripresa e il suo tasso di crescita, fra il 2000 e il 2008, è stato mediamente superiore al 4 per cento. Esporta macchine, componenti elettronici, prodotti dell’industria mineraria e dell’artigianato ed è diventata la più forte economia del Sud-Est asiatico dopo l’Indonesia. Ma è stata investita dalla crisi del credito e il suo pil si è contratto, nel 2009, del 2,9 per cento. Il governo di Abhisit Vejjajiva, succeduto nel 2006 a quello del discusso imprenditore Thaksin Shinawatra, sta applicando al paese la stessa dolorosa terapia con cui alcuni governi europei cercano di risanare i conti pubblici dei propri paesi. Il secondo fattore è politico-istituzionale. La Thailandia è un antico regno: il sovrano è Bhumibal Adulyadej, nato nel 1927, regna dal 1946 e gode di una indiscussa popolarità. La crescita economica ha straordinariamente arricchito il paese e aumentato le aspettative dei thailandesi, ma ha fortemente accentuato le differenze di reddito e stato sociale fra i ceti urbani e quelli rurali, tra i gruppi professionali e imprenditoriali e quelli che occupano posizioni umili e servili, fra una cerchia di privilegiati al vertice dello stato e l’uomo qualunque. Il premier che ha cercato di colmare il divario e dare una risposta alle esigenze delle masse popolari è un uomo d’affari improvvisamente apparso sulla scena politica all’inizio del decennio, Thaksin Shinawatra. Ha costruito la sua fortuna dal nulla, soprattutto nel campo delle telecomunicazioni, ha conquistato il potere facendo un largo uso del suo denaro, ha avviato una politica assistenziale che gli ha assicurato i consensi di una larga parte del paese e ha governato con uno spregiudicato piglio populista. Ma i suoi affari hanno attirato l’attenzione della magistratura, la sua politica ha turbato il sonno dei gruppi tradizionali sostenuti dalle forze armate e il suo governo si è concluso con un colpo di stato militare quattro anni fa. Oggi vive tra Londra e Dubai, ma nelle scorse settimane era presente con i suoi video fra i suoi partigiani: un esercito di camicie rosse che ha occupato alcuni quartieri di Bangkok e ha chiesto insistentemente le dimissioni del governo. In altre circostanze il re avrebbe parlato al paese, avrebbe esortato i suoi connazionali alla calma, avrebbe persuaso i manifestanti a lasciare le vie e le piazze della capitale. Ma in questa occasione ha taciuto, forse perché è gravemente malato, forse perché è ostaggio dei gruppi che hanno riconquistato il potere quattro anni fa e preferiscono una prova di forza. Nel paese, quindi, vi è anche una crisi istituzionale che sarà inevitabilmente aperta dalla scomparsa del re. Prepariamoci quindi a una lunga fase d’instabilità thailandese. La prospettiva preoccupa gli americani, per cui la Thailandia è stata in passato un buon alleato. E rallegra probabilmente la Cina, che coglierà l’occasione per estendere la propria area d’influenza nell’Asia sudorientale.