Franco Bechis, Libero 20/5/2010, 20 maggio 2010
SI PAPPANO PURE LE OLIMPIADI
La buona notizia per Diego Anemone è che mancano ancora dieci anni. Da qui al 2020 è possibile che tutti si siano dimenticati di lui, di Angelo Balducci e della cricca degli appalti. E chissà che anche la sua piccola impresa di Grottaferrata non possa riemergere dai tribunali conquistandosi una piscina, uno stadi etto, un campetto di tiro a volo da costruire per le Olimpiadi di Roma 2020. Perché la notizia da ieri è comunque quella. Il Coni ha deciso di gettare la città eterna, quella degli appalti con vista sul Colosseo nella sfida per l’organizzazione dei giochi olimpici del 2020. Addio sogni di gloria per Venezia e per l’operoso Nord-Est, trattato dalla commissione tecnica del Coni al massimo come una sede tutt’al più buona per il canottaggio. Si è deciso così di portare all’onore del mondo dopo 60 anni la città natale degli eroi della cricca degli appalti pubblici. E poco importa che la storia dell’organizzazione dei grandi eventi sportivi abbia fatto di Roma una sorta di grande carcere a cielo aperto. giusto di qualche settimana fa la coda della sua ultima avventura: 33 richieste di rinvio a giudizio per l’organizzazione dei mondiali di nuoto del 2009. Costi lievitati a dismisura, buttati al vento almeno 190 milioni di fondi pubblici un po’ di corruzione qua e là per favorire questo o quel centro sportivo, piscine sequestrate a lungo e alla vigilia della nuova stagione estiva di nuovo a rischio sequestro. Non c’è stato un solo bando vinto per l’organizzazione di quei mondiali che abbia visto alla fine rispettare anche solo alla lontana i costi di realizzazione previsti negli importi di aggiudicazione.
La costante del Belpaese
Bisogna dire che questa è stata una costante di ogni grande evento organizzato in Italia, e non una peculiarità della capitale. Più o meno raddoppiati rispetto alle previsioni anche i costi delle olimpiadi invernali di Torino 2006 (2 miliardi di euro), cresciuti man mano che si avvicinava l’evento e ci si accorgeva della lentezza delle opere pubbliche anche quelli per mondiali di ciclismo, per la Louis Vitton cup e per qualsiasi rilevante evento sportivo. L’Italia intera dalle Alpi alla Sicilia sta ancora pagando le follie dell’organizzazione (basata a Roma) dei mondiali di calcio del 1990. Solo nel 2007, ad esempio, è stata abbattuta la stazione ferroviaria Olimpico-Farnesina costata 15 miliardi di lire (e qualche inchiesta giudiziaria) nel 1990 e utilizzata solo 4 giorni durante i celebri mondiali di calcio organizzati da Luca Cordero di Montezemolo. Un monumento al nulla, come molte delle opere pubbliche realizzate all’epoca. Perfino gli stadi spesso cattedrali nel deserto, utilizzati controvoglia come il Delle Alpi di Torino e poi destinati ad una ancora più costosa demolizione. In fondo la Roma dei mondiali 1990 è stata per i magistrati la vera prova generale, l’antipasto di Tangentopoli. Quella dei giochi olimpici 2020 rischia di essere il digestivo di
Appaltopoli. Su una sola voce si è riusciti negli ultimi anni a risparmiare fondi pubblici: quelli dei Coni legati alle medaglie d’oro degli atleti. Più si organizzano in casa giochi e competizioni internazionali, più gli azzurri rimediano magre figure. Così a Torino nel 2006 in mezzo al diluvio di lacrime per i costi lievitati, il Coni si è rimesso in tasca quasi 500 mila euro di premi vittoria risparmiati rispetto a un budget che a loro appariva fin troppo realistico. andata peggio.
Se Venezia oggi piange per l’occasione sfumata (ma chissà, non è detto che su qualche garaforse proprio quelle acquatichenon possa rientrare in gioco), potrebbe tirarsi un po’ su di morale dando un’occhiata ai bilanci degli ultimi giochi olimpici.
La Grecia insegna
La corsa delle candidature farebbe pensare a un grande affare per tutti. Ma è più leggenda che realtà il sogno di fare lievitare pil nazionali o locali organizzando le olimpiadi. Ci si potrebbe riuscire se i costi venissero rispettati, ma questa non è la regola e ormai nemmeno un’eccezione: i budget a conti fatti vanno sempre in malora. Provare a chiedere ai greci in queste ore quanto sono felici di avere organizzato gli storici giochi olimpici di Atene 2004. Se il loro paese è ko, è anche per quell’evento. Ufficialmente il costo complessivo era stato di poco inferiore ai 5 miliardi di euro (4,6 miliardi per l’esattezza), meno della metà di quanto prevede oggi la candidatura di Roma.
Ma rispetto alla vigilia tutte le previsioni sono andate a farsi benedire. La sola gestione operativa doveva pesare per 500 milioni di euro: è costata 2 miliardi, cioè quattro volte tanto. Il solo villaggio olimpico è costato 600 milioni di euro. I costi indotti alla fine sono stati 20 miliardi di euro: 1,5 solo per migliorare l’aeroporto internazionale di Atene, poco meno per la metropolitana, 5 miliardi per la rete di telecomunicazioni, altri 4,3 miliardi per due autostrade (Pathe ed Egnatia) e 2 miliardi per obiettivi di utilità sociale, compresi gli adeguamenti infrastrutturali ad ospedali.
Chi ci ha guadagnato? Tutti i privati che hanno realizzato quelle opere pubbliche, imprese di costruzioni in testa. Chi ci ha perso? Lo Stato greco che per realizzarle si è indebitato fin sopra la testa per 30 anni. Forse anche per sostenere quei costi insostenibili qualcuno ha pensato bene all’epoca di truccare i conti pubblici. Il risultato è quello di oggi: le Olimpiadi sono all’origine del crack di un intero paese.