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 2010  maggio 18 Martedì calendario

CAMBIARE LA GIUSTIZIA NON TRADIRE

Caro direttore, c’è un evidente paradosso in molte delle posizioni del centro-sinistra: quando Berlusconi minaccia di fare le ”riforme” da solo, si denuncia, giustamente, il carattere autoritario delle sue intenzioni; quando poi ci si azzarda ad avanzare proposte - che partendo da problemi concreti mirino a realizzare il consenso necessario a essere approvate - si grida immancabilmente al tradimento, dando così il più formidabile degli alibi a chi intende prescindere dall’opposizione e regalando una patente da riformista a chi non ha né la voglia né la capacità di cambiare, se non per realizzare la tutela dei propri interessi.
Opporsi a cambiamenti pericolosi e sbagliati senza proporre ipotesi alternative è il modo migliore per apparire difensori dello status quo, anche quando le cose non vanno. Per questo c’è l’urgenza di costruire una piattaforma del Pd sui temi della giustizia. Un’alternativa alla linea della destra. Sempre che gli interventi compulsivi e le enunciazioni generiche della maggioranza possano far parlare di una linea in materia. Una piattaforma su un tema come questo - che ha segnato profondamente la vita politica di questi anni e che chiama in causa questioni fondamentali come la concezione della legalità e il valore della persona - non può ridursi a un mero catalogo di obiettivi.
Deve certo, tenere conto delle posizioni delle altre forze politiche, di come può interagire con l’iniziativa dell’avversario, ma anche e soprattutto, come sottolineato da lei, deve diventare patrimonio e caratterizzare una comunità di militanti.
Per questo occorre una discussione ampia, che non sia un modo di diluire le posizioni ma che anzi sia l’occasione per modificare conservatorismi e luoghi comuni che su questo come su molti altri temi si sono inculcati nel nostro comune sentire. Una discussione ampia, che faccia tesoro delle nostre conoscenze, delle nostre diversità e che partendo dall’ottima esperienza della Conferenza nazionale del Pd sulla giustizia del novembre di due anni fa possa portarci ancora un passo più avanti. Come condurre questo percorso per ciò che concerne la giustizia? Credo che le questioni da affrontare si possano dividere in tre campi. Il primo è costituito dalle emergenze. Da ciò che è esploso o che sta per esplodere nel servizio giustizia, questioni sulle quali si è ampiamente discusso tra gli addetti ai lavori, dentro fuori le forze politiche. In questo campo non mancano le ricette condivise, manca però la volontà politica di realizzarle.
C’è l’emergenza della giustizia civile innanzi tutto. Cito un effetto tra i tanti delle disfunzioni di questo settore reso ancor più grave dalla crisi: chi può non paga, contando sul fatto che i tempi della giustizia sono talmente lunghi che quando e se il giudice costringerà a pagare il debitore, le cose si saranno risolte per altre vie. A danno del creditore naturalmente. Questo fenomeno è la causa della rovina d’imprese, professionisti, famiglie. E questa volta non ci si può limitare all’ennesimo intervento una tantum. Si deve affrontare il tema della semplificazione dei riti assieme all’altra emergenza che riguarda la giustizia nel suo insieme: quella dell’organizzazione. Ciò significa parlare delle risorse e del personale, di quello amministrativo in primis.
I tagli intervenuti in questi anni sono stati pesanti e realizzati a prescindere da qualsiasi logica di razionalizzazione. I veri attentati alla giurisdizione sino a oggi si sono realizzati più per via amministrativa (tagli risorse, blocchi del turn over, mancati adeguamenti degli organici, assenza di un disegno organizzativo) che per i minacciati interventi sul terreno costituzionale. Forse perché qualcuno ricorda la batosta del referendum del 2006. Va contrastata questa tendenza rivedendo, partendo da un necessario incremento, sia l’allocazione, sia i criteri di assegnazione delle risorse. per questo urgente la riorganizzazione delle circoscrizioni giudiziarie.
Infine il carcere. In questi giorni abbiamo preso atto del fatto che il governo non ha alcuna strategia, diviso al suo interno tra chi è consapevole dell’esigenza di fronteggiare, seppur con una notevole dose d’improvvisazione, il dramma che si sta consumando nel nostro sistema penitenziario e chi prosegue con la propaganda forcaiola. Si marcia così dritti verso l’implosione del nostro sistema penitenziario. E non cambia la situazione, purtroppo, la leggina sulla detenzione domiciliare, in discussione alla Camera, un intervento nella direzione giusta ma insufficiente rispetto alla situazione. Il Pd avanzerà le sue proposte per affrontare il sovraffollamento carcerario, rilanciare le pene alternative, rivedere le norme che generano l’attuale situazione. E nei prossimi giorni faremo altrettanto sulle altre due emergenze richiamate. Attorno a queste proposte, dal carattere volutamente aperto, organizzeremo un confronto con tutto il mondo della giustizia e con i cittadini ai quali vorremmo dare l’opportunità di intervenire in un dibattito troppo spesso riservato agli addetti ai lavori. Organizzeremo un viaggio nella giustizia italiana confrontandoci con chi sta sul campo, con chi vive quotidianamente i problemi di un servizio che funziona male,raccogliendo indicazioni e suggerimenti. Credo che questa iniziativa farà emergere in modo ancor più evidente la distanza siderale che corre tra la realtà e l’agenda del Governo.
Il secondo blocco di questioni e quindi di proposte attiene alle questioni che riguardano i tempi del processo penale e le garanzie della persona in un’ottica antitetica rispetto a quella perseguita dal Governo. Le nostre proposte s’incentreranno sulle semplificazione possibili, delle modalità di notifica, delle impugnazioni e soprattutto su una riforma del codice penale. Attualmente la combinazione tra le varie Cirielli, la previsione di una serie di reati introdotti a seguito dalla propaganda securitaria e la riduzione dei tempi di prescrizione provoca i seguenti effetti: tanti disgraziati e pesci piccoli in galera e tanti delinquenti liberi grazie a un buon avvocato che sappia far scattare la prescrizione.
Questa seconda parte di proposte, credo, vada però accompagnata da una riflessione di carattere culturale che consenta di recuperare le radici autenticamente garantiste del riformismo italiano. Il concetto di garantismo infatti è cosa ben diversa dall’idea che ha questa destra di garantire i politici con nuove immunità, anzi: penso che questa nostra iniziativa vada affiancata ad una lotta senza quartiere alla corruzione ad esempio attivando la Convenzione di Strasburgo del ’99 che inasprisce le pene per i funzionari pubblici ed i politici corrotti modificando subito le norme che hanno previsto procedure eccezionali sottratte ai controlli con particolare rilievo a quelle che hanno equiparato i grandi eventi alla gestione delle emergenze derivate da catastrofi naturali. E poi le riflessioni culturali spero si leghino ad un chiarimento su ciò che significa difendere la Costituzione. Nella «Costituzione più bella del mondo» c’è scritto che i magistrati devono essere indipendenti e questa è una garanzia per tutti. Noi siamo contro la separazione delle carriere anche per questo. Ma c’è scritto anche che ognuno non può essere considerato colpevole sino a sentenza definitiva, che ha diritto ad una ragionevole durata del processo e che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Queste norme vanno difese in blocco e non separatamente secondo le esigenze contingenti. E va ricordato che alcune di queste, le ultime in particolare, sono quotidianamente disattese. Connesso a questo ragionamento sta il terzo blocco di questioni. Quelle che attengono all’autogoverno, all’organizzazione e alla responsabilità della magistratura. Quest’ambito è legato al tema delle garanzie e a quello dell’organizzazione e dell’efficienza del sistema giustizia. Difenderemo sempre l’indipendenza dei giudici. Ma l’indipendenza della magistratura come ha perfettamente detto il professor Ainis è figlia – prima ancora che del dettato costituzionale – della sua autorevolezza agli occhi dell’opinione pubblica e della sua capacità di riconoscere gli errori commessi dei giudici. evidente che il funzionamento di un’amministrazione, e quella della giustizia non fa eccezione, è connessa al modo in cui si scelgono gli amministratori, al modo in cui si valutano i comportamenti di chi opera in quell’amministrazione, alla trasparenza con cui si esercita l’attività istituzionale. Non mi convince chi dice che poiché c’è Berlusconi, bisogna sostenere che su questi punti tutto funziona al meglio. Perché anche un bambino capisce che non è così. opportuno discutere, partendo da una valutazione seria sulle novità introdotte nell’ordinamento, di ciò che ancora non va. Ma crediamo anche che la Costituzione non vada toccata laddove disciplina il funzionamento della giustizia. Lo faremo confrontandoci con i magistrati e con le loro rappresentanze e tenendo conto delle opinioni diverse che le caratterizzano: allo stesso tempo chiederemo rispetto per le nostre proposte e contrasteremo i tentativi di deformare le nostre posizioni. Nelle scorse settimane per esempio abbiamo richiamato una proposta di legge del Pd presentata nel gennaio 2009 che definisce le modalità dell’esercizio dell’azione penale.
Solerti opinionisti e autoproclamati difensori dell’ordine giudiziario sono insorti contro la presunta apertura all’abolizione dell’obbligatorietà, inevitabile presupposto all’inciucio e anticamera certa dell’eliminazione dell’indipendenza della magistratura. Sarebbe stato sufficiente leggere la legge in questione per verificare che la fatwa era scagliata a vuoto. Infatti, quella legge, di cui è lecito discutere, non intacca (e peraltro trattandosi di legge ordinaria neppure potrebbe) il principio dell’obbligatorietà ma viceversa mira a renderlo, differentemente da quanto avviene oggi, effettivo e trasparente attraverso una procedura che ha come culmine una decisione del Csm. Proprio perché il funzionamento della giustizia non può essere piegato alle esigenze di Berlusconi e i suoi cari, è necessario che ne possano discutere tutti i cittadini, tutti quelli che fanno funzionare il sistema, chi ne subisce le disfunzioni e quelli che più in generale ritengono che la legalità sia un tema che li riguarda perché appartenenti alla comunità nazionale. Forse non si è riusciti a insegnare a ogni cuoca a dirigere lo Stato come pretendeva Lenin, ma per fortuna ancora non bisogna essere ingegneri trasportisti per constatare che un treno è in ritardo e sporgere reclamo.