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 2010  maggio 20 Giovedì calendario

LA TIENANMEN DI BONGKOK IN UN PAESE DALLO SVILUPPO SPEZZATO


I dimostranti che affollavano le piazze di Buenos Aires per manifestare la loro devozione al colonnello Perón erano descamisados, scamiciati. Quelli che hanno occupato un intero quartiere di Bangkok nelle scorse settimane invocando il ritorno di Thaksin Shinawatra indossano una camicia rossa. Sono cambiati i tempi.
Una grande manifestazione popolare, ai nostri giorni, deve conformarsi agli imperativi mediatici delle riprese televisive. Occorrono registi, coreografi, camicie, t-shirt e cappellini dello stesso colore, slogan preparati dalle riunioni di lavoro dei consulenti politici e degli psicologi delle masse. Ma fra i descamisados di Peron e le camicie rosse thailandesi esiste una lontana parentela. I dimostranti sono (o si considerano) diseredati e il loro leader è il messia che risolverà i loro problemi. La crisi thailandese è un fenomeno abbastanza comparabile, ma oscurato paradossalmente dal turismo, vale a dire dalle impressioni che tanti viaggiatori occidentali riportavano in patria dai loro viaggi. I grandi alberghi, le splendide spiagge, le isole incantevoli, l’elegante folklore e la promessa di qualche svago sessuale hanno creato un diaframma che ci impediva di vedere la vera Thailandia. Di qui la sorpresa con cui apprendevamo di tanto in tanto che nel Paese esistevano masse irrequiete e che queste masse potevano inscenare manifestazioni di fronte alle quali i raduni hitleriani e mussoliniani sarebbero parsi modesti. In realtà la crisi thailandese non è incomprensibile. Dagli anni Ottanta in poi, con un piccolo ritardo rispetto alle tigri asiatiche, la Thailandia ha cominciato a crescere. Da Paese arcaico, governato paternamente da una vecchia monarchia (ricordate «Anna e il re del Siam», un musical di successo diventato spettacolo cinematografico?) il Paese si è trasformato in una piccola potenza industriale che esporta soprattutto minerali, macchine e componenti elettroniche. Fino alla grande crisi del 1997-1998 è cresciuto a tassi che hanno sfiorato spesso il 10% del Pil. Dopo avere riparato i danni e aggiustato il tiro, lo sviluppo è ripartito con tassi di crescita inferiori, ma pur sempre rilevanti. Il Paese, in altre parole, è diventato più moderno e più ricco. Ma le grandi modernizzazioni hanno l’imperdonabile difetto di non essere quasi mai eque. Favoriscono alcuni gruppi sociali, aiutati dalle circostanze o particolarmente dinamici. Offrono occasioni di lavoro e carriera a giovani ambiziosi e ad affaristi spregiudicati. Migliorano il livello di vita di coloro che vivono accanto ai settori più produttivi. Ma dimenticano lungo la strada una parte importante della popolazione: contadini, dipendenti di aziende anacronistiche, esperti di mestieri antichi, ormai inutili. E il Paese, anziché crescere insieme, è cresciuto diviso tra chi approfittava della crescita e chi dalla crescita veniva invece danneggiato. Il primo ad accorgersi che il Paese si stava spaccando fu un uomo che aveva avuto la fortuna di imboccare la strada giusta. Si chiama Thaksin Shinawatra, ha fatto una fortuna nel settore delle telecomunicazioni, ha accumulato con una certa spregiudicatezza una considerevole ricchezza, ed è stato morso, quando aveva compiuto i cinquant’anni, dalla tarantola del potere politico. Sarebbe assurdo negare i suoi meriti e le sue intuizioni. Negli anni passati alla guida del Paese, dal 2001 al 2006, Thaksin ha fatto probabilmente i suoi personali interessi. Ma è riuscito a interpretare le esigenze di una parte della popolazione. Il suo populismo assistenziale presentava molti inconvenienti, anche finanziari, ma dava ai diseredati la sensazione che qualcuno a Bangkok pensava a loro e cercava di migliorare la loro vita. Questo sentimento è stato accentuato dal modo in cui, manu militari, l’«ancien régime» lo ha cacciato dal potere. Tra coloro che lo hanno deposto vi sono certamente uomini e gruppi democratici che volevano ripulire il Paese dai metodi corrotti dell’imprenditore divenuto tribuno della plebe. Ma vi sono anche coloro che appartengono all’establishment oligarchico, sostenuto dai militari, che ha governato la Thailandia per molti anni. Non sappiamo fino a che punto Thaksin possa ancora essere considerato leader, a tutti gli effetti, dalle camicie rosse. Può darsi che il movimento abbia ormai altri capi e prescinda dalle sue direttive. Ma Thaksin, come Peron, è tuttora, e sarà ancora per qualche tempo, l’icona della protesta. Mentre si dibatte in una crisi economica e sociale, la Thailandia sta scivolando verso una crisi istituzionale. Il re è un anziano signore molto amato dal popolo, autorevole ma non autoritario, che in passato ha garantito l’unità della nazione con interventi e appelli pacati e concilianti. Oggi è molto malato, e questo spiega forse il suo silenzio. Ma l’assenza può essere spiegata altresì dalla volontà del governo di regolare una volta per tutte i conti con l’opposizione. stato permesso alle camicie rosse di occupare un quartiere della città. stato permesso ai dimostranti di gridare i loro slogan e avanzare le loro richieste. Ma a ben guardare gli assediati, all’interno della città, erano i dimostranti, non gli esponenti delle istituzioni. E quando il governo ha ritenuto che i tempi fossero maturi, la partita è stata chiusa. Non è Tienanmen, ma è per molti aspetti la sua versione thailandese.