Elena Comelli, Nòva 24 20/5/2010;, 20 maggio 2010
LE PLASTICHE DELLA NATURA
Nel «Laureato», il film del 1967 con Dustin Hoffman e Anne Bancroft, un collega del padre consiglia a Ben, appena uscito dal college, la strada da percorrere: «C’è un grande futuro nella plastica ». Oltre quarant’anni dopo, la storia si ripete. La plastica del nostro futuro, però, non viene dal petrolio, come quella di allora. Viene dai campi, dalle alghe o da qualunque biomassa utile anche per produrre biocarburanti.
Le bioplastiche crescono ormai da anni con tassi a due cifre e le prospettive di sviluppo sono ancora più marcate, grazie al caro greggio, ma anche all’insostenibilità ambientale dei materiali non biodegradabili che ingombrano le nostre spiagge e sporcano i mari del mondo. Le borse della spesa in polietilene, da tempo condannate a morte per crimine ecologico continuato e aggravato, saranno le prime a cadere: in Italia è in vigore una legge, derivante da una direttiva europea, che ne vieta produzione e commercializzazione dall’inizio del 2011. Ma già alcuni Comuni hanno preso l’iniziativa in anticipo, seguendo l’esempio di Parigi e mettendole al bando parzialmente, come Roma, o completamente, come Torino. Le hanno già eliminate anche diverse catene di supermercati, come Auchan o le Coop. L’alternativa più comune sono i sacchetti in Mater- Bi, la linea di biopolimeri della Novamont, la pioniera italiana delle bioplastiche, guidata da Catia Bastioli. La bioraffineria di Novamont oggi sforna 80mila tonnellate di bioplastiche all’anno, derivate dal mais e da olii vegetali, che vanno a finire nei prodotti più disparati, dai pneumatici Goodyear ai bicchierini per il caffè.
La brasiliana Braskem è convinta di poter fare di meglio con la canna da zucchero e sta costruendo un impianto che fornirà Tetra Pak di polietilene verde ad alta densità, derivato da bioetanolo. E il business attira anche giganti come Cargill, che insieme al colosso giapponese Teijin ha fondato NatureWorks, con il suo Ingeo uno dei più grossi produttori di acido polilattico, un biopolimero derivato sempre dal mais, ma inadatto alle alte temperature. DuPont ha appena annunciato l’espansione del suo impianto di produzione di bioplastica da mais in Tennessee. La californiana Cereplast utilizza per le sue resine biodegradabili amido di mais, grano, tapioca o patate. Gli utilizzi sono i più disparati, dal packaging alla moda. Fujitsu è stata una delle prime società a usare bioplastiche per i suoi laptop. Mazda e Toyota le usano per gli interni delle loro auto. Atomic e Salomon producono scarponi in bioplastica e Calvin Klein si è lanciata nei biopolimeri con una giacca da golf.
Ma il boom delle bioplastiche di prima generazione, derivate da colture in concorrenza con quelle alimentari, come il mais o la canna da zucchero, ha aperto la strada per una seconda generazione di biopolimeri, che tentano di saltare il fosso utilizzando materia organica non in concorrenza con le colture alimentari. C’è chi utilizza polpa di legno, come l’americana Rotuba. Chi preferisce l’olio di ricino, come la giapponese Denso. Ma le alghe vanno sempre più di moda. Dow, seconda industria chimica del mondo dopo Basf, si è alleata con Algenol, una start-up basata in Florida, per produrre bioetanolo dalle sue alghe, coltivate in enormi bioreattori. Il bioetanolo verrà poi utilizzato come materia prima per sviluppare bioplastiche. Cereplast, specializzata in biopolimeri da mais, è già a uno stadio più avanzato nello sfruttamento delle alghe e ha annunciato l’industrializzazione del processo entro fine anno. Ma per ora le resine derivate dalle alghe non sono in grado di ballare da sole: possono solo essere usate come additivo al 50% per produrre un materiale ibrido insieme alle resine di origine fossile.
Gli ultimi arrivati, come materia prima per le bioplastiche, sono i liquami di fogna. Elaborati da batteri, "raffinerie" naturali molto più potenti di quelle costruite da noi umani, i liquami cedono la loro materia organica per trasformarsi in biopolimeri, a quanto pare di alta qualità. La start-up Micromidas, uno spin-off dell’università della California a Davis fondata da John Bissell, ha appena vinto il prestigioso Cleantech Open con il suo procedimento, che da un lato produce un materiale utilissimo, dall’altro alleggerisce il lavoro dei depuratori. Siamo quasi alla pietra filosofale degli alchimisti, capace di trasformare piombo in oro.