Claudio Magris, Corriere della Sera 20/05/2010, 20 maggio 2010
L’ARTE DELLA FUGA FIRMATA TOLSTOJ
Quanto più sono grandi, tanto più gli scrittori riconoscono che la vita è più grande di loro. «La vita è originale», diceva Svevo, più di quanto potesse esserlo lui stesso, certo uno dei più originali narratori che siano mai esistiti. Nell’età moderna e contemporanea si è acuita tale consapevolezza dell’imprevedibile creatività, in bene e in male, del reale e della difficoltà di rappresentarlo.
Forse perfino Tolstoj, l’Omero moderno, è stato superato poeticamente da ciò che la vita gli ha riservato nei suoi ultimi giorni. Quattro giorni’ dalla notte fra il 27 e il 28 ottobre alla sera del 31 ottobre 1910 – in cui Tolstoj, a 82 anni, fugge da casa, dalla famiglia, dall’ordine consueto che gli appare falso, per trovare quella vita vera, autentica, di cui forse nessun’altra opera letteraria come la sua riesce a far sentire l’assoluta esigenza e di cui egli stesso si sente colpevolmente incapace. Bloccato dalla febbre alta alla stazione di Astàpovo, vi muore sei giorni dopo, la mattina del 7 novembre.
L’appassionata odissea di quei giorni, in cui l’esistenza sembra esprimere la sua profondità e le sue contraddizioni come in un grande racconto di Tolstoj stesso, ha attirato l’affascinata attenzione di molti, perché è una di quelle vicende individuali in cui si riassume, come in una parabola, un momento essenziale della vita e del mondo. Ne ha scritto con straordinaria intensità, in un libro pubblicato la prima volta nel 1986, un autore che ha sempre sentito fortemente l’originalità e la bizzarria della realtà, Alberto Cavallari.
Grande giornalista, cui si devono servizi indimenticabili – ad esempio sulla rivoluzione d’Ungheria, sul Vajont o sul Vaticano che cambia – e la memorabile direzione del «Corriere della Sera» in uno dei suoi momenti più difficili, Cavallari è un vero scrittore, un cronista del reale a tutto campo, un inviato speciale nella vita. In lui il fiuto del segugio, abituato sin da giovanissimo a scoprire i dettagli anche minimi in cui si rivela il caleidoscopio della realtà sociale, si unisce alla vasta cultura di un intellettuale che pensa in grande e a un inconfondibile sentimento, sanguigno e melanconico, del vivere.
Il piglio picaresco e avventuroso del giornalista che va a caccia del mondo come un giocatore d’azzardo si accompagna a un’adamantina intransigenza morale, fin troppo pronta a pagare di persona e a rifiutare ogni compromesso. C’è in lui, accanto alla curiosità per l’esistenza, un indomito coraggio sempre pronto al buon combattimento e un oscuro, sempre arginato senso del nulla, un desiderio di fuga che non contraddice la fraterna lealtà con cui lo si trova al proprio fianco nei momenti difficili. Forse per questo ha scritto La fuga di
Tolstoj, fuga che ha ripercorso passo a passo e narrato con puntigliosa fedeltà ai fatti, cercando di capire – è questo il compito creativo dello scrittore’ come quei fatti sono stati vissuti e cosa significano per noi. Sulle tracce di Tolstoj in fuga da se stesso, Cavallari coglie le cose con quello sguardo, con quell’occhio che un altro grande, Bernardo Valli, paragona a un arpione che scende fulmineo ad afferrarle. questa la caratteristica di Cavallari, la sua capacità di fare del dettaglio, messo a fuoco con secca precisione, l’epifania di qualcosa di essenziale, come ad esempio nell’indimenticabile raffigurazione delle mani di Paolo VI, che le guarda sorpreso e sgomento della loro fragilità.
Cavallari scompare epicamente nella materia che narra e che gli rivela i suoi inesauribili significati. In questo caso, la materia è grande come quella di un vero poema epico, perché è Tolstoj, travolgente come un fiume in piena pur nella sua debolezza, sincero sino alla sconvenienza e indecifrabile come l’antica pietra cui lo paragona Gor’kij.
In quella fuga, un’esigenza di assoluto e di purezza si altera nel delirio e nell’egocentrismo più narcisista, l’urgenza di spogliarsi di tutto s’intreccia alla prepotenza inconsapevole; il ritorno alla natura e il rifiuto della «letteratura» si mescolano a una grafomania che induce quasi tutti i membri della famiglia a scrivere e a nascondere diari, in cui si accusano a vicenda e si autoaccusano. La generosità e l’amore s’intorbidano nel sospetto geloso e nella lotta per un meschino dominio famigliare. Ingiusti entrambi l’uno nei confronti dell’altro, Tolstoj e la moglie sono anche vittime e, come spesso accade alle vittime, prevaricatori.
In ogni altro contesto questa sarebbe una storia di nevrosi, di senilità impotente, di eccitata debolezza. Nella grande Russia indistinguibile dal grande Tolstoj, come diceva Pasternak, questi grovigli non scalfiscono un’imperturbabile forza epica, simile a quella di un animale o di una pianta, che nessuna angoscia può intaccare. Tolstoj legge, scrive, ricopia, cavalca per ore, dorme febbricitante al freddo. Si dibatte come un topo in trappola – i suoi percorsi di andata e ritorno, all’aria gelida ma anche nel cuore, rivivono con potenza nel racconto di Alberto Cavallari – ma resta il grande orso, demonico e indifferente come la natura, anche’ o soprattutto’ quando si consegna all’assoluto o al nulla, gettando via la propria vita con la stessa forza con cui se l’era presa e goduta a fondo.
Una fuga di pochi giorni e di pochi chilometri fra scompartimenti di terza classe e squallide stazioni, inferi domestici che diventano teatro del mondo e grande inverno russo.
Quel vecchio impenitente peccatore smanioso di purezza mostra una via di possibile salvezza e Cavallari ce la fa toccare con mano, con quell’evidenza che il vero scrittore sa dare alle cose. Scappare, bisogna scappare, egli ripete con Tolstoj. Talvolta ciò può essere più difficile che andare all’assalto.
Claudio Magris