Alessandra Coppola, Corriere della Sera 20/05/2010, 20 maggio 2010
LE FAVELAS, LO SPORT, IL GLAMOUR. GLI SCATTI DI UN «REPORTER GENTILE»
Un uomo che cammina sui carboni ardenti al festival vegetariano di Phuket o il letto sfatto di due prostitute minorenni nella favela Villa Mimosa di Rio. La battaglia delle camicie rosse a Bangkok, l’ultimo reportage; oppure il ritratto del campione di boxe candidato alle presidenziali filippine, Manny Pacquiao, il penultimo servizio, probabilmente già pronto, concordato con la redazione di Spor-tweek, capitolo di un libro incompiuto sugli atleti olimpionici.
«Sono una persona estremamente curiosa e con interessi vari», scriveva di sé Fabio Polenghi, il fotografo italiano ucciso ieri in Thailandia, in un’autobiografia online. C’erano stati i servizi di moda per Marie Claire a Parigi e i ritratti patinati di personaggi celebri per Vogue Brasile. Ma a essergli congeniale, dicono, era soprattutto la «fotografia sociale». Così la definisce Gino Ferri che di Fabio era stato coordinatore all’agenzia Grazia Neri (chiusa lo scorso settembre): «Lo interessavano le situazioni di difficoltà, di marginalità, di sofferenza». Contesti che, spiega Ferri, non richiedono solo un buon istinto fotografico o un particolare gusto estetico, ma anche una sensibilità e un interesse giornalistici.
La sua era un’impostazione da fotogiornalismo d’Oltralpe, si era formato negli ambienti vicini all’agenzia francese Sigma, e se Ferri dovessi immaginare una collocazione ideale per le foto di Polenghi direbbe Paris Match: «Immagini che informano, che danno notizie, raccontano, e non curano solo l’estetica».
Non era uno che partiva all’improvviso attirato dall’odore della polvere da sparo. Tutt’altro. Nel Sud-Est asiatico c’era da tre mesi. Si documentava, studiava. E poi, certo, se accadeva qualcosa lui era lì, non si tirava indietro. «Se fare un reportage sulle camicie rosse significava andare fin dove c’era lo scontro, lui ci andava», dice Ferri.
Lo spiega semplicemente il fotografo di Magnum Alex Majoli: «Dove c’è un incendio c’è un pompiere, dove c’è un ferito, un medico. E dove c’è un avvenimento, c’è un fotografo. Se Fabio era lì, è perché qualcuno ci doveva essere». L’insegnamento di Robert Capa: «Se le tue foto non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino». «Io difendo fotografi come Fabio – continua Majoli ”. E non sopporto chi dice: chi te l’ha fatto fare di andare a Bangkok!».
Essere sul fronte, se è necessario. Ma senza cercarlo a tutti i costi. Ci tiene a sottolinearlo anche Elena Cerati, che a Grazia Neri curava i rapporti con l’estero e lo conosceva bene. «Non era un fotografo da prima linea». Piuttosto un reporter «a tutto campo». Capace di passare da una storia a un’altra. Senza essere superficiale, ma coi contatti giusti, le giuste precauzioni, l’elmetto e il giubbotto antiproiettile. Uno che si sapeva muovere, e che lo faceva con garbo. Lo dicono tutti: serio e gentile.
Anche Giovanni Audiffredi, giornalista di Vanity Fair che con lui s’era tirato palline di vernice in un momento di pausa da un servizio sugli indigeni in Honduras, lo ricorda soprattutto come un «grande professionista». Non molto alto, ma sportivo, atletico. «Forte», lo definisce Audiffredi. Portava bene i suoi 45 anni, gli avresti dato di meno. L’aria sempre un po’ stropicciata di chi non dà molta importanza ai vestiti e in generale ai soldi. La barba incolta, le infradito in città. Uno che viveva delle sue foto e si accontentava di poco.
«Era un pacifista, una persona libera, un anticonformista». Marco Biraghi era suo amico da quarant’anni. «Abbiamo trascorso insieme tutta l’adolescenza, ricordo le partite di basket, il risiko, le vacanze a Stromboli». Dove la mamma di Fabio aveva aperto un ristorante. Donna tosta, con un talento speciale per la cucina, la descrivono. Ieri era nella sua casa sui Navigli, a Milano, comprensibilmente con poca voglia di parlare. L’ha fatto brevemente la sorella di Fabio, anche lei fotografa: «Viveva per il suo lavoro – ha detto – era appassionato e ci credeva». In arrivo dall’Honduras, dove lavora nel settore turistico, l’altra sorella, Arianna. Una famiglia molto solida, dicono, semplice.
Fabio con Marco era cresciuto in periferia, a San Felice. E giovanissimo aveva cominciato a fotografare. Molto spesso in giro per il mondo. Una casa a Rio de Janeiro e un lungo soggiorno in Brasile, un documentario a Cuba (si definiva anche «occasionalmente regista»), il Sudafrica, decine di altri viaggi e più di recente la passione per l’Asia.
Quando rientrava a Milano faceva base a casa della madre, un giro dai photo-editor di riferimento, da Sportweek a Vanity. I vecchi amici. Pochi giorni fa Marco gli aveva mandato un’email per ricordargli delle foto che avrebbe dovuto fare alla figlia, e lui gli aveva gentilmente risposto che si trovava a Bangkok, che chiamasse la sorella. «Una persona umilissima, con una calma zen. Non credo che nella sua vita abbia mai litigato con nessuno. Sorrideva sempre, era sempre allegro». Marco a rilanciare su Facebook l’ultimo post di Fabio, scritto in inglese: «Ogni giorno è un dono, fai del tuo meglio per essere felice. Love to everyone ».
Alessandra Coppola