Marco Del Corona, Corriere della Sera 20/05/2010, 20 maggio 2010
I RIBELLI SI ARRENDONO. L’ESERCITO UCCIDE FOTOGRAFO ITALIANO
La fine del mondo sa di gomma bruciata: barricate in fiamme davanti ai cingolati. Fa rumore: lo schianto delle granate, lo scambio di colpi. La fine del mondo a Bangkok sono i nuovi morti: almeno 6, caduti nella battaglia scatenata dall’offensiva dei soldati contro l’accampamento delle «camicie rosse», nel centro della città. Uno di loro è un fotografo italiano, Fabio Polenghi, 45 anni, centrato all’addome. Altri 9 morti all’interno del tempio vicino all’area attaccata sono stati denunciati nella notte da un medico dell’ ospedale Phra Mongkut. L’operazione dell’esercito è durata quasi 10 ore e ha visto la resa di alcuni leader antigovernativi. Ma anche se è servita a sgomberare l’incrocio di Rajprasong, da oltre due mesi quartier generale dei manifestanti, ha provocato una dispersione dei focolai di violenza: gruppi di persone hanno incendiato una ventina di edifici, compresi la sede della Borsa e uno dei maggiori centri commerciali d’Asia. In alcuni quartieri è mancata per ore l’energia elettrica e il premier Abhisit Vejjajiva ha imposto il coprifuoco nella capitale e almeno in 21 province.
L’operazione parte all’alba. I cingolati affrontano le barricate, rimbalzando sull’intrico di pneumatici, bambù e filo spinato. Eliminate le barriere, avanzano i militari. battaglia, a ondate. Ed è in uno di questi attacchi che viene ucciso Polenghi. Lungo il lato occidentale del parco di Lumphini il confronto dura a lungo. Tra i resti delle tende fino alla notte prima occupate dai manifestanti, con avanzi di cibo e l’acqua ancora in fresco, a metà mattina sono distesi due cadaveri. Più avanti, all’angolo nordovest del parco, i militari sono impegnati da tiratori appostati dal lato dei ribelli. Amezzogiorno, prima e dopo spari isolati e raffiche, esplodono tre granate. Le schegge investono un giornalista canadese a poche decine di metri da dove i colleghi, compreso il cronista del Corriere, hanno trovato protezione. Feriti e portati via dai cingolati anche due soldati, lo scoppio ha maciullato a uno il braccio, la gamba all’altro. «Cecchini dalla parte delle "camicie rosse"!», si sente urlare, e per un’ora non ci si allontana dalla via Sarasin che costeggia Lumphini. In un garage vuoto, i militari raccolgono una dozzina di uomini e donne, ammanettati e bendati. Ci sono anche due monaci buddhisti, legati alle sedie, come in segno di riguardo, anziché essere lasciati a terra. Quando due confratelli si avvicinano i soldati li bloccano, perquisiscono e li fermano. Due camionette della polizia raccolgono tutti.
Nella zona controllata dai manifestanti, i leader decidono la resa. «Non possiamo resistere a questi barbari», invoca Jatuporn Prompan. «I nostri cuori saranno sempre con voi», aggiunge il carismatico Nattawut Saikua, ma ciò che resta della folla grida che non ci sta, piange e si dispera. il preludio di quanto sta per accadere. Alcuni dei leader si costituiscono alla polizia, ma almeno l’ex cantante Arisman Pongruengrong riesce a scappare, beffando le autorità come quando s’era calato da un hotel settimane fa. Ed è a questo punto che gruppi di oltranzisti si disperdono per la città, spargendo violenza.
Pile di copertoni sono arse in zone diverse, il fumo avvolge lo Sheraton di Sukhumvit, zona turistica, e la sede dell’azienda elettrica butta fumo dalle finestre. Assaltato il palazzo della tv governativa
Channel 3, e serve un elicottero per portare via dal tetto un centinaio di dipendenti terrorizzati. Brucia un teatro, bruciano alcune banche e Central World, cattedrale del lusso, fiamme escono dall’ingresso della Borsa, che sospende gli scambi fino a lunedì. Altri due giornali a rischio rappresaglia, i quotidiani Bangkok Post e
The Nation, evacuano a scopo precauzionale. Rimangono invece nel tempio della «zona rossa» – quello dei 9 morti’ donne, bambini e feriti. Intanto il governo annuncia il coprifuoco, con licenza di sparare a vista su sciacalli e incendiari, più una stretta sulle trasmissioni tv, che potranno mandare in onda «solo programmi autorizzati». Più tardi tocca a Internet, con il blocco di Facebook e Twitter.
Frullano notizie incontrollate di «camicie nere» – estremisti dei «rossi» ben armati e addestrati: i militanti vicini a Seh Daeng, il generale rinnegato morto lunedì – appostate in alcuni incroci. In un’intervista alla Reuters l’ex premier e fonte d’ispirazione della protesta, Thaksin Shinawatra, cita minacciosamente «una teoria secondo la quale la repressione militare può diffondere risentimento, e chi è risentito può diventare un guerrigliero». I fatti paiono seguire la sua interessata profezia. Proteste e assalti a palazzi pubblici a Chiang Mai, terza città del Paese, a Khon Kaen, Ubon Ratchathani e Udon Thani, nel rurale e affannato Nordest che si ritiene beneficiato da Thaksin, un’area che è una fucina di «camicie rosse». I 15 morti di ieri e la sessantina di feriti (fra loro 3 giornalisti), al netto della notte, portano a oltre 70 le vittime (e a 2 mila i feriti) di queste settimane di proteste. Abhisit promette di «riportare la pace», ma la battaglia di ieri non è la fine. La Thailandia rimane malata, non la guariscono né l’assalto dei soldati né gli spari dei ribelli. E la piaga è sempre più colma di sangue.
Marco Del Corona