Stefano Mannucci, Il Tempo 20/05/2010, 20 maggio 2010
TUTTE IN FUGA DA FACEBOOK, IL LUMACONE VIRTUALE TREMA
La data dell’Apocalisse si avvicina a passi larghi. Il lumacone virtuale teme che dal 31 maggio dovrà tornare a elaborare strategie tridimensionali, se vorrà rimorchiare con qualche chance. in quel giorno, infatti, che la Grande Fuga da Facebook avrà inizio, sottraendo al playboy internettiano molte potenziali prede. All’esodo, promosso da alcuni siti per protesta contro l’invasione della privacy da parte del social network, potrebbero aderire molti dei 400 milioni di utenti di Facebook.
Una, di sicuro, sarà Alba Parietti, che va dicendo di essere stata, davanti al pc, «oggetto di molestie perché quello è diventato uno sfogatoio per mitomani». Vero. Chiedete a una qualunque amica abbia un profilo aperto su Fb. Ogni sua foto, ogni frase, fosse pure «lasciatemi in pace che oggi sono stranita come un macaco» si attirerà in un batter d’occhio centinaia di risposte maschili, apprezzamenti, proposte di coccole copia-e-incolla, serenate rap in posta privata, un cippi-cioppi virile preso in prestito dal più frusto repertorio del seduttore contemporaneo. Che non si muove più con la santa pazienza di una volta, quando, tutto impomatato, faceva le poste alla bella mentre passeggiava sul corso cittadino, regalandole fiori e cioccolatini e conquistandone la fiducia dopo un tirocinio degno del miglior Flaubert.
No, ora lui se ne sta lì, nella penombra illuminata dal baluginare latteo del computer, e draga compulsivamente le acque pescose di Facebook, convinto che prima dell’alba qualcuna abboccherà. La prenderà per sfinimento, dopo averne dedotto l’aspetto da immagini formato francobollo, e talvolta sarà punito dagli dei della tecnologia: quella che in effige pare una proustiana fanciulla in fiore si rivelerà, una volta avvicinata, una Maga Magò scaruffata e agée, una panterona imbiancata della quale non riuscirà più a liberarsi, e maledetto il momento in cui le ha dato il numero di telefono, perché la maliarda poi lo perseguiterà come un’Erinni vendicatrice delle cozze.
Ecco cosa è accaduto, da quando il fantastico mondo cibernetico ha tolto al merlo maschio il piacere di lanciare il suo richiamo verso una possibile compagna, una sola, non verso un intero parco protetto dove impera la nevrosi da predatore seriale, da collezionista di consensi che appiccica le sue figurine femminili all’album dell’autostima. Il piacione a tutto tondo vive e prospera su Facebook, l’impalbabile terra promessa che ha sostituito le chat sentimental-erotiche, e che ha ormai spazzato via il business degli "speed-date" nei locali, quei confronti collettivi dove i candidati fidanzati si incontravano vis-a-vis, uno via l’altro, in presentazioni da cinque minuti, infarcite di adrenalina e sudore, e se le dici la cosa sbagliata («La mia passione è far colazione con fette biscottate e ’nduia») sei eliminato al primo colpo. Ma una volta come si faceva? Come si conquistava una lady prima di Facebook e prima ancora dei cellulari, quando tre gettoni in una cabina potevano decidere la tua fortuna, purché lei rispondesse flautata, all’altro capo del filo, da un telefono grigio di bachelite con il disco girevole? Se proprio l’appuntamento era al buio (i quotidiani pubblicavano le inserzioni degli "incontri", quelli puliti, non le professioniste dell’amore), al massimo le dicevi di aspettarti sotto la mitica lampada Osram della stazione Termini, e quando eri a cinquanta metri se quella «bionda di bella presenza» si rivelava una specie di trumeau da rigattiere, te la davi a gambe con sussiego, senza mai accelerare il passo ma neppure fischiettare.
Si stava meglio quando si stava peggio? Forse sì, a voler ammantare il contesto rosa di una luce adolescenziale - psichedelica - da metà anni Settanta. Quella era l’epoca in cui i liceali, pur di tentare il colpaccio con la più carina della scuola, erano costretti ad estenuanti trattative con i genitori, perché si decidessero per un weekend dalla zia Adelina in Toscana, lasciando così libero il campo di caccia casalingo. Era il giorno della «festa». Si doveva garantire che nessuna statuina di Capodimonte sarebbe stata frantumata dai gaudenti, o che nessun centrino di pizzo sarebbe stato imbrattato di chinotto e pan brioche. Il passo successivo era corrompere il più sfigato, il brufoloso quattrocchi, investendolo del ruolo cardine di cambia-dischi. Avrebbe dovuto piazzare sul piatto dello stereo quel lento che durava venti minuti, mentre tu ti avvicinavi ciondolando (ma senza l’hesitation) alla vittima designata, sperando che l’ascella aspersa di Brut 33 non tradisse qualche ormonale afrore.
Eccola lì, la meraviglia del creato: dopo mesi di appostamenti, mezzi sguardi a ricreazione, «casualissime» e infruttuose manovre d’attracco per il falò con chitarra sulla spiaggia, finalmente è fra le tue braccia, tenendoti una mano sulla spalla perché tu non aderisca a lei come un polipo da scoglio. il momento: stai per chiederle di uscire insieme, e arriva il cazzarone: « il ballo della scopa». Ti consegna la ramazza, e si porta via la pupa. Trenta secondi di eternità, risucchiati nell’iperspazio del fallimento. Tutto perduto. Altro che Apocalisse di Facebook.