Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 19/05/2010, 19 maggio 2010
PERCH MEGLIO NON DIRE CHE L’EURO STATO AGGREDITO
Le sarei grato se con semplicità potesse spiegarci che cosa è accaduto. La mia insegnante diceva: «soggetto, predicato e complemento». Chi aggredisce l’euro? Per ottenere che cosa? Come fa ad aggredirlo? Che cosa si aspetta? Quale sarà il danno per noi? Ho provato a fare queste domande, ma nessuno ha saputo darmi una risposta.
Antonio Bassi
advisorco@alice.it
Non è poi così male questa speculazione che fa scoppiare le bolle immobiliari, le bolle azionarie, le bolle dei bilanci pubblici; essa interviene tempestivamente a bloccare processi dannosi che si instaurano per carenze politiche stimolando provvedimenti virtuosi dei governi che in sua assenza non prenderebbero mai sia per il timore delle proteste sindacali sia perchè per un politico è meglio che il denaro corra comunque. In ultima analisi essa potrebbe costituire una sorta di giudice saggio delle economie mondiali!
Fabrizio Logli
fabrizio.logli@alice.it
Cari lettori, le vostre lettere trattano il problema della crisi da punti di vista diversi, ma si prestano a una risposta comune.
L’«aggressione», di cui l’euro sarebbe vittima, è una di quelle parole tratte dal linguaggio militare di cui la stampa si serve abitualmente quando deve rappresentare una situazione conflittuale dall’esito incerto. Ma non credo che in questo caso sia appropriata. Può darsi che in alcuni mercati finanziari (per esempio a Wall Street) qualcuno abbia visto con piacere la crisi dell’euro e abbia contribuito ad aggravarla diffondendo prognosi infauste. Ma nella sostanza il problema è abbastanza semplice. I mercati finanziari osservano attentamente le aziende e gli Stati, leggono i loro bilanci, cercano di comprendere e valutare le loro strategie per decidere se scommettere sul loro successo o sul loro fallimento. Quando nacque l’euro, alla fine degli anni Novanta, i mercati furono chiamati a giudicare un fenomeno inedito: una moneta usata da una pluralità di Paesi dietro i quali non esisteva tuttavia un governo capace d’imprimere a ciascuno di essi una linea comune di politica economica. Ma hanno letto il Patto di Stabilità con cui i governi dell’eurozona minacciavano fulmini e saette ai Paesi che si fossero distaccati dai sacrosanti principi del Trattato di Maastricht in materia di debito e disavanzo. E sono stati complessivamente a guardare, in attesa di capire come il nuovo sistema avrebbe funzionato.
Sono stati a guardare, tutto sommato, anche dopo il fallimento di Lehmann Brothers. Sapevano che il collasso del gigante americano e la crisi delle polizze sotto-apprezzate avrebbero dato una pericoloso scossa al sistema bancario, ma dovettero constatare la rapidità con cui i singoli governi salvavano le loro banche, e decisero che non valeva la pena di scommettere «contro». La situazione è cambiata quando il nuovo governo greco ha rivelato al mondo lo stato disastroso dei suoi conti pubblici e la Germania ha fatto capire che non sarebbe intervenuta a salvare i «fannulloni» del Mediterraneo. a quel punto che molti hanno deciso di scommettere sul fallimento dell’euro: una scommessa lecita che ha avuto effettivamente il merito, come sostiene Fabrizio Logli, di mettere in evidenza la serietà della crisi e di costringere i membri dell’eurozona a uscire dalla palude delle loro incertezze.
Sergio Romano