Raffaele La Capria, Corriere della Sera 19/05/2010, 19 maggio 2010
LA BELLA CONFUSIONE DELLA DOLCE VITA
Degli anni della Dolce Vita, a voi che non li avete vissuti io parlerò in prima persona, perché io li ho vissuti, e cinquanta anni fa – mezzo secolo fa’ ero un giovane ambizioso e di belle speranze. Volevo diventare uno scrittore ed essere indipendente.
Arrivato a Roma da Napoli trovai fortunatamente un posto che faceva per me ai programmi culturali della Rai. Così conobbi quasi tutti gli scrittori sul campo perché la Rai offriva collaborazioni e toccava a me leggere i loro testi e mandarli in onda. Roma mi sembrò subito familiare. Alla Rai c’era il mio più caro amico, Peppino Patroni Griffi, anche lui arrivato da Napoli con Francesco Rosi e Antonio Ghirelli. Peppino era noto nell’ambiente teatrale, conosceva attori, registi, scenografi, tutta gente molto vivace, e conosceva Luchino Visconti che allora era un punto di riferimento culturale e mondano, oltre che un grande regista, e aveva una sua corte, proprio come un signore del Rinascimento. La rivalità artistica tra lui e Strehler aveva rianimato la vita teatrale a Roma, ma anche il cinema celebrava i suoi fasti e i nomi di Rossellini, De Sica, Zavattini, e i loro film, erano famosi in tutto il mondo.
Com’era diversa la vita allora! Ci si dava appuntamento dopo la mezzanotte, all’una alle due, come fosse un orario normale. A quell’ora a Via Veneto c’era un viavai di gente di tutti i tipi, un fiume scintillante che scorreva tra i tavoli dove sedevano i più noti attori del cinema, artisti, produttori, dive e divette, perché la Dolce Vita di Roma, che non era ancora il film di Fellini, attirava tutti. C’era a Roma una «bella confusione» allora, e La bella confusione era il titolo che Fellini aveva pensato prima de La dolce vita. C’era una bella confusione intorno ai tavoli dei caffè Rosati e Canova dove attori, registi, architetti, scenografi, pittori, scrittori, politici si scambiavano opinioni, non come oggi che gli scrittori stanno con gli scrittori, i pittori con i pittori, e la bella confusione non rende vivace la conversazione. Ercole Patti e Sandro De Feo erano i numi tutelari del Caffè Rosati a Piazza del Popolo, che presidiavano fin quasi all’alba. Soldati strillava polemizzando con il serafico Bassani e il pacifico Bertolucci al ristorante Le Colline Emiliane in attesa che fosse servito a tavola il «giambonetto», specialità del posto. Elsa Morante era seguita dal suo corteo di giovani, ammiratori di Menzogna e Sortilegio, il suo romanzo più bello. Moravia che dopo Gli indifferenti aveva celebrato Roma nei Racconti romani ne La Romana e ne La Ciociara usciva ogni sera con Pasolini che stava scrivendo Ragazzi di vita in un italiano con forti intonazioni romanesche, Enzo Siciliano, autore dei Racconti ambigui, era il loro amico inseparabile. In quelle sere Laura Betti cantava a tempo di rock la canzone che Soldati aveva scritto per Roma: «I hate Barocco / I hate Scirocco / I haaate Rome!...». La cantava in uno di quei teatrini che avevano fatto la fortuna de «I Gobbi», la compagnia di Franca Valeri e Vittorio Caprioli, Salce e Bonucci, che si esibivano con successo anche a Parigi, e mentre in uno di questi teatrini off si rappresentava En attendant Godot, nei grandi teatri romani furoreggiavano i grandi personaggi «eroici» di Vittorio Gassman, che con la sua sonora voce neo-classicheggiante dava vita a Tieste, a Kean, ad Otello. Il salotto Bellonci si destava all’avvicinarsi della primavera e portava il solito brusio di chiacchiere, pettegolezzi e previsioni. Ne feci diretta esperienza nel ”61 quando per un punto vinsi col mio romanzo Ferito a morte il Premio Strega, e tutti dopo incontrandomi per la strada mi dicevano: se non ti avessi dato il mio voto non avresti vinto! Il voto che più mi fece piacere fu quello che mi dette Goffredo Parise, che da allora divenne per me uno degli amici più cari. Stava scrivendo i suoi Sillabari e quando aveva scritto un racconto che gli pareva particolarmente riuscito, la sera incontrandomi mi manifestava il suo buonumore nei modi più divertenti. Come era sottile la sua affettuosa presa in giro delle ubbie di Gadda! Gadda allora lavorava alla televisione, aveva una stanza allo stesso piano dove c’ero io, e con me Siciliano, Golino e Romanò. Gadda s i comportava con l’inappuntabilità di un solerte impiegato (e come tale era trattato!), lui che stava per pubblicare La cognizione del dolore. Non ho parlato degli allora giovani emergenti Arbasino, Malerba, Manganelli e del critico Guglielmi, del poeta Pagliarani, del solitario non ancora celebre Delfini poi celebrato dal grande Cesare Garboli, di Giovanni Urbani, allievo di Brandi e poi direttore dell’Istituto del Restauro, su cui ho scritto un racconto intitolato Un amore negli anni della Dolce Vita, e di tanti altri che la sera si incontravano da Cesaretto, a via della Croce, una trattoria diventata quasi un centro culturale, frequentato anche da Flaiano, Giovanni Russo, Maccari, da Totò Bruno e da qualche graziosa accompagnatrice. Che animazione la sera da Cesaretto! Ognuno sedeva accanto a chi voleva, conversava con chi voleva, e tra i tavoli circolava come un elisir la felicità di incontrarsi, di stare insieme, io così ricordo Cesaretto e quelle serate.
E come erano eccitanti le letture che si facevano in quegli anni! Erano arrivati i saggisti francesi con lo strutturalismo, la microstoria, la critica semantica, la critica stilistica, e presto diventarono una moda culturale. Parole come la sineddoche e la metonimia facevano tanto arrabbiare De Feo che trovava questo tipo di linguaggio specialistico insopportabile, soprattutto quando veniva adottato con disinvoltura nella conversazione dagli sprovveduti. Si scontravano in quel tempo avanguardisti emoraviani, pittori astrattisti e figurativi, qualcuno si azzardava a proporre Lacan, altri si riferivano a Foucault, ma i saggi del nostro Chiaromonte e quelli di Debenedetti erano per i più avvertiti un punto fermo imprescindibile. Arbasino con le Sessanta posizioni aveva fatto la sua «gita a Chiasso», ma per me la rivelazione fu il suo libro Le piccole vacanze. Un altro suo libro Grazie per le magnifiche rose fece scalpore perché osava criticare il teatro di Visconti e la recitazione della prima attrice Rina Morelli. Apriti cielo! Sacrilegio! Polemiche, feroci invettive, pettegolezzi, quella sì era vita culturale! E com’era divertente!
E a proposito del teatro, che successo fu nel cuore di quegli anni la commedia D’amore si muore del mio amico Peppino Patroni Griffi, scritta per la Compagnia dei giovani, di Giorgio De Lullo e Romolo Valli. E visto che sto parlando del successo di un amico, mettiamoci pure il film di Franco Rosi Le mani sulla città, il cui soggetto avevamo scritto insieme, e che vinse il Leone d’oro a Venezia. Sul giornale «Il Mondo» apparve una pagina intera con la fotografia mia e di Franco e un titolone che alludeva a noi come «I Giovani Leoni». Chi lo avrebbe immaginato quando partimmo da Napoli poveri e pieni di belle speranze! E a proposito di leoni non posso dimenticare la mia prima sceneggiatura, fatta con Vittorio Caprioli, del film Leoni al sole. Mentre sceneggiavamo tra una risata e una battuta pensavo, che bellezza, sto lavorando, mi diverto con Vittorio, e mi pagano pure!
Scrivere sceneggiature era una delle attività più ambite perché più remunerative, da un momento all’altro ti sentivi ricco, e anche se la ricchezza durava soltanto qualche mese, potevi comprarti per esempio una spider e andartene al mare con la tua ragazza spensieratamente almeno per un’estate. E così capitò anche a me qualche volta. Moravia, Brancati, Flaiano, scrivevano sceneggiature, e tra tutti Flaiano, che sceneggiò La dolce vita con Fellini, era il più richiesto.
Quando si parla di quegli anni il nome di Flaiano diventa emblematico, Flaiano e la Dolce Vita vanno sempre messi insieme, eppure tanto dolce la vita di Flaiano non fu a causa del dolore che si portava dentro per la malattia della sua unica figlia. Era un uomo dotato di un’ironia straordinaria, che copriva una tristezza di fondo e il suo humour era spesso un umor nero. Le sue battute lo hanno reso celebre, perché lui è insieme con Leo Longanesi uno dei pochi scrittori la cui fama, oltre che alle opere, è affidata alle parole che pronunciò, in questo simile a un novello Socrate.
Come ho detto il film di Fellini avrebbe dovuto intitolarsi La bella confusione e in effetti una bella confusione era entrata nella nostra vita e nella nostra immaginazione, era entrata nei libri che stavamo scrivendo ed era diventata la nostra «filosofia della composizione», «il disordine prestabilito» dei libri di Gadda, di Arbasino, di Manganelli, e se permettete anche del mio Ferito a morte. Fu quella bella confusione un segnale che dette il via a un desiderio di rinnovamento e di avventura, perché ci parve di poter strappare in mille pezzi il triste manoscritto della vita precedente per ricomporlo poi in una nuova forma più vicina ai desideri del cuore.
Ma presto la bella confusione rivelò la sottile angoscia che nascostamente la pervadeva e che del resto era già in Otto e mezzo di Fellini e in molti film di Antonioni, la bella confusione si trasformò in alienazione e l’alienazione in ideologia. Brevi furono gli anni felici della Dolce Vita e breve la mia giovinezza che li attraversò.
Raffaele La Capria