GUIDO RAMPOLDI, la Repubblica 18/5/2010, 18 maggio 2010
QUALE STRATEGIA PER KABUL
Da quando il contingente italiano è in Afghanistan, mai come davanti a queste bare sembra evidente la fatica delle parole, la difficoltà di esplicitare una ragione che permetta di dare un senso al sacrificio di altre vite. Eppure le parole dell´ufficialità, delle istituzioni italiane, ancorché astratte non sono ingannevoli. Non è mentire sostenere che la Nato sia entrata in Afghanistan con l´idea di «portare la pace», sia pure per un suo proprio interesse; e certamente non ha portato la guerra, giacché quella preesisteva da un ventennio almeno. Né è falso che le truppe occidentali oggi siano un presidio teoricamente utilissimo per stabilizzare una regione minacciata dai fondamentalismi islamici più pericolosi, i più paranoici.
Chi sostiene il contrario quanto meno non può negare che, se la Nato si sfilasse, la mischia afgana ingigantirebbe in uno scontro tra tutti i Paesi dell´area, moltiplicando i conflitti armati, le milizie, le ecatombi, le carestie, l´insicurezza nostra e di quella parte del mondo.
Però basta avventurarsi nei forum della Rete per scoprire quel che i sondaggi confermano: a sinistra come a destra la nostra presenza in Afghanistan non convince più, per usare un eufemismo.
E probabilmente non ha mai convinto del tutto la maggioranza degli italiani. Troppo remoti quei deserti, troppo complicata l´area, troppo artefatte le rappresentazioni ottimistiche sfornate in questi anni dalla propaganda., forse. Eppure non sono meno artefatte e propagandistiche le rappresentazioni per le quali la sconfitta è inevitabile. Dopotutto la Nato è all´offensiva, e proprio nelle regioni del sud che i Taliban considerano la loro base storica. I contingenti impegnati negli attacchi sono costretti ad esporsi, da qui un aumento delle perdite subite dagli occidentali. Ma i Taliban sono sempre più divisi e godono di un consenso risibile per milizie che aspirano ad impersonare un movimento di liberazione nazionale. Quel che più conta: anno dopo anno, una parte crescente della popolazione assapora libertà e consumi cui non rinuncerà.
Troppo è cambiato dal 2002 perché l´Afghanistan torni a chinare la schiena di fronte agli editti stralunati del suo piccolo emiro. Detto altrimenti: alla Nato va male, ma ai Taliban va perfino peggio.
Basta questo stallo per spiegare tanta stanchezza nelle parole, e tanta riluttanza a capire le ragioni di una guerra non ancora persa? Probabilmente dobbiamo mettere sulla bilancia anche la strategia di comunicazione americana.
Senza successi reali e vistosi, quali al momento non sono all´orizzonte, è difficile immaginare come l´anno prossimo Washington possa cominciare il ritiro delle sue truppe dall´Afghanistan, per completarlo nel 2013. Però l´amministrazione Obama ha annunciato questo scadenzario. riuscita a rassicurare l´opinione pubblica statunitense, provata da una sequenza interminabile di lutti e delusa dallo spettacolo offerto dal governo afgano.
Ma ha generato il sospetto, soprattutto in Europa, che ormai la Nato cerchi soltanto di mascherare una fuga già decisa. Che dunque sia insensato «morire per Kabul». Tanto più perché nel frattempo l´accelerazione occidentale - un aumento delle truppe e delle offensive, in modo da costringere i Taliban al negoziato (in cui sperano soprattutto Karzai e i britannici) - è risultata inconcludente.
Ora, la guerra afgana è stata per molti versi mal congeniata: ma non è, come l´Iraq, un´avventura intrinsecamente sbagliata. troppo tardi per raddrizzarla? Sarebbe come dire che i soldati italiani uccisi ieri sono morti per nulla. O come suggerire ai loro compagni che farebbero meglio a defilarsi, ad evitare i pericoli. Perché rischiare, se la partita è già finita? Beninteso, è possibile che i pessimisti abbiano ragione. Il problema è che la loro rischia di diventare quella che la politologia chiama una self-fulfilling prophecy, una profezia che si auto-invera. Quanto più diamo per certa la sconfitta, tanto questa nostra attitudine renderà l´esito probabile.
«Per vincere le guerre è cruciale essere superiori nella forza delle proprie convinzioni, non nella tecnologia», mi aveva detto sei mesi fa il colonnello Tarar, l´ufficiale dello spionaggio pakistano che ha addestrato alla guerriglia l´intero vertice dei Taliban. «Per questo perderete», aveva aggiunto. Non si può negare che la convinzione delle opinioni pubbliche occidentali nella guerra afgana sia debole e declinante, e non senza motivi.
L´impresentabilità degli alleati afgani e i limiti dell´alleanza occidentale, un singolare assemblaggio dei più diversi stili di combattimento, tutto questo ha lasciato un segno. Ma l´Afghanistan non è un altro Iraq. Se una schiacciante maggioranza di afgani vuole che gli occidentali restino e li preferisce ai Taliban, evidentemente laggiù le cose non sono andate come in Mesopotamia, dove, a tre anni dall´invasione, il consenso di cui godevano le truppe americane viaggiava intorno al 10%. Il Paese non ha conosciuto i massacri etnici, la spartizione rigida del territorio. unito, relativamente ma come non lo era da molti anni.
Mentre preparava l´invasione dell´Iraq l´amministrazione Bush esplicitò una Grand Strategy, una strategia di grande respiro che all´epoca appassionò gli americani. Purtroppo quella visione imperiale, grandiosa, non aveva molto in comune con la realtà; e il suo pronostico di un «effetto-domino», per il quale alla caduta di Saddam sarebbe seguito il tonfo di tutte le dittature mediorientali, si rivelò una sciocca illusione. comprensibile che dopo quella ubriacatura le opinioni pubbliche occidentali guardino con diffidenza i grandi disegni strategici, tanto più se coinvolgono strumenti militari. Però rischiamo di cadere nell´eccesso opposto. La rinuncia a pensare il mondo al di là del proprio interesse spiccio, la sfiducia nell´azione, la diffidenza verso ogni universalismo in quanto nasconderebbe una vocazione sopraffattrice, tutto questo è la tomba dell´Occidente. Anche per questo la fuga dall´Afghanistan segnerebbe la crisi finale dell´Alleanza atlantica, che ne verrebbe completamente ridimensionata nelle sue proiezioni e nella sua ragione sociale.
Forse così è scritto. Forse l´Occidente è ormai una geometria superata dalla storia, la Nato un residuato bellico della Guerra fredda. Ma se ne siamo convinti dovremmo onestamente dircelo, e spiegare quale è l´alternativa.