Paolo Mieli, Corriere della Sera 18/05/2010, 18 maggio 2010
LE TRE SCONFITTE DELLA SINISTRA NELL’ITALIA SENZA CONSERVATORI
Una democrazia bloccata: prima demagogica, poi partitica e infine populistica
Ci sono tre date capitali della storia d’Italia del Novecento che hanno qualcosa in comune: il 28 ottobre 1922 (marcia su Roma), il 18 aprile 1948 (successo elettorale della Dc), il 27 marzo 1994 (vittoria di Silvio Berlusconi). Ognuna di esse ha segnato l’inizio di una fase nuova della storia del Paese: il fascismo, la repubblica dei partiti, la cosiddetta Seconda Repubblica. E ogni passaggio da una fase a un’altra è avvenuto grazie a eventi esterni al sistema parlamentare, ognuno a suo modo traumatico: le violenze del biennio rosso, la sconfitta bellica e la minaccia sovietica, le inchieste giudiziarie di Mani pulite. Quel che accomuna queste date è il tema di Tre giorni nella storia d’Italia (Il Mulino), nel quale Ernesto Galli della Loggia rivisita il «modello peculiarissimo» dell’esperienza politica del nostro Paese, caratterizzata da una forte «divisività», cioè da contrapposizioni frontali tra parti che si considerano nemiche. Un fenomeno che porta con sé l’inclinazione di ogni assetto politico di governo, nonché della parte del Paese che esso rappresenta, a considerarsi privo di alternative accettabili, dunque la tendenza a trasformarsi in «regime», mettendo (o cercando di mettere) gli oppositori in una posizione di tendenziale illegalità. Di qui una questione di legittimazione e delegittimazione che assurge a un ruolo centrale e permanente nel sistema politico italiano e che produce – su entrambi i versanti, quello dei detentori del potere e quello degli avversari – «una specifica (e tendenziosa) narrazione del passato funzionale ai bisogni del presente». Talché, secondo Galli della Loggia, si può dire «che fin dal momento dell’Unità l’uso pubblico della storia abbia avuto in Italia una sua sede esemplare».
L’effetto di questo insieme di fattori è stato l’impossibilità di dar vita’ come cosa normale, fisiologica – a schieramenti alternativi. E così «ogni reale novità politica o viene assorbita più o meno trasformisticamente, o è costretta in qualche modo a collocarsi all’esterno del sistema e a proclamarsi fuori e contro di esso». Ne deriva il carattere traumatico dei passaggi di cui alle «tre date» che danno il titolo al libro. Un’Italia che si configura come una «democrazia illiberale» («illiberale nella sostanza, nel modo concreto di funzionare, nella cultura generale della società») che nel secolo scorso si è fatta moderna «prendendo prima le forme brutali e ultrademagogiche del fascismo, poi quelle partitiche e popolari della Repubblica, infine quelle acquisitive e populistiche del berlusconismo». Ma qualunque forma abbia preso, scrive Galli, le è rimasto sempre addosso un marchio: quello della profonda estraneità verso ogni prospettiva di tipo conservatore, anche quando lo schieramento politico al potere ha esibito un volto «moderato». La mancanza di una «prospettiva conservatrice» – cioè di una dimensione pubblica orientata alla continuità, poggiante su valori e prassi non mutevoli, su una visione dell’interesse collettivo non fluttuante per la continua incertezza delle pressioni, delle combinazioni politiche, delle amicizie – ha avuto come effetto l’assenza di un’amministrazione statale consapevole della sua funzione, preparata a esercitarla perché animata da un ethos adeguato: « Alla fin fine » , sostiene l’autore, «un’amministrazione e una classe dirigente non possono che svilupparsi in una prospettiva conservatrice perché il loro scopo è precisamente quello di conservare, di trasmettere, di confermare e consolidare». Da noi tutto ciò è mancato. Ne è seguita una sostanziale estraneità alla democrazia liberale. Democrazia liberale che dovrebbe nutrirsi «di quel senso dell’autocontrollo e del limite, di quel rispetto delle forme e delle consuetudini, di quella scettica tolleranza e insieme diffidenza verso ogni novità, di quella preminenza data a interessi non di parte o di partito, che sono caratteristiche di un punto di vista genuinamente conservatore». Ecco quale è stato il prezzo del nostro essere (o volerci proclamare) sempre rivoluzionari e invocare ogni volta a gran voce la rottura, la messa in soffitta del passato, la discontinuità.
Ma veniamo alla marcia su Roma. In Italia, nota Galli della Loggia, da una quindicina d’anni a questa parte, o forse più, si continua sì ad analizzare il fascismo, ma si scrive e si studia molto meno il modo in cui Mussolini arrivò al potere. «In una storiografia tradizionalmente molto politicizzata come quella italiana, e in un ambiente politico come il nostro dove in un modo o nell’altro il pericolo di un "ritorno al fascismo" è continuamente ancora oggi all’ordine del giorno, il fatto non sembra casuale e non può mancare di sollecitare qualche tentativo di spiegazione che inevitabilmente lo colleghi a quell’uso pubblico della storia, da noi praticato da sempre in misura massiccia». Questo «silenzio della storiografia» sulle origini del movimento mussoliniano (stiamo parlando della storiografia recente, ché lo stesso Galli ricorda come questi temi in passato fossero stati all’attenzione di studi importanti a cominciare da quello fondamentale di Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo, edito dalla Nuova Italia) secondo l’autore è dovuto al fatto che «su questo punto si gioca qualcosa di ben più decisivo per la storia d’Italia di quanto sia in ballo con la Resistenza» sulla quale ormai, a seguito di non poche battaglie culturali, sono stati, pressoché concordemente, stabiliti quantomeno i punti fondamentali. Per la vittoria del fascismo, invece, resiste una interpretazione per così dire classica, secondo cui essa fu «colpa» della vecchia élite, la quale «per scarsa fede nei suoi stessi valori, non fece nulla per sbarrargli la via preferendo di fatto consegnargli nelle mani il potere». Ciò che «la democrazia italiana e il suo discorso politico-storiografico ufficiale sembrano tuttora incapaci di ammettere è il fatto che le due culture politiche fondatrici di quella stessa democrazia’ la cultura politica cattolica e la cultura socialista-comunista – abbiano avuto, ognuna a suo modo, e al pari di quella liberale, una parte attiva rilevantissima e decisiva nella crisi da cui nacque e per cui si affermò il fascismo». per questo, per il fatto che è percepito come «delegittimante in misura non sopportabile», che la storiografia italiana ha abbandonato questo campo di ricerca, «dopo che per mille segni era diventato difficile mantenere la versione consacrata».
Ma su cosa è che si dovrebbe tornare? Premesso che nell’Italia del primo Novecento non riuscì a compiersi il passaggio dal liberalismo alla democrazia e che «il fascismo costituì una soluzione di ripiego, o meglio un surrogato, che a suo modo cercò di rappresentare e di accogliere dentro di sé aspetti tanto dell’antico che del nuovo mediati dalla leadership carismatica di Mussolini», Galli ricorda che la marcia del fascismo verso il potere iniziò nella primavera del ”15, quando una minoranza antigiolittiana, in rapporto con importanti settori dell’establishment, impose l’entrata in guerra del nostro Paese. Fu in quel frangente che «i modi dell’urbanità e del galantomismo che fino a quel momento avevano dominato il campo che si chiamava "costituzionale" cominciarono a cedere il passo alla spregiudicatezza, all’uso pubblico delle insinuazioni e delle contumelie, alla convinzione terribile che il fine giustifica i mezzi» e in ambienti fin lì dediti alla compostezza si fecero largo «una sbrigatività compiaciutamente plebea e una febbrile eccitazione intellettuale».
Per quel che riguarda il primo dopoguerra, poi, lo storico torna su un fatto «troppo spesso dimenticato in nome del politicamente corretto»: l’ondata di violenze «che si abbatté sull’Italia a partire dall’estate del 1919 ebbe un segno sia di destra che di sinistra e anzi, per almeno un anno, molto più di sinistra a causa della posizione rivoluzionaria assunta dal Partito socialista». Fu Pietro Nenni a descrivere così l’Italia di quei mesi: «Qua e là si armavano per spontaneo impulso milizie rosse, sorgevano centurie operaie, si formavano organizzazioni giovanili sul piano militare, si rastrellavano, specie nelle zone di guerra, armi e munizioni… nessuno può contestare che in molte province e nelle maggiori città il potere fosse effettivamente esercitato dalle Camere del Lavoro». Quel Psi che voleva la rivoluzione «come in Russia» si spostò, secondo Galli, «su posizioni antinazionali destinate a raggiungere punte di autolesionismo demente». E non furono solo le violenze diffuse, ma anche un apparato ideologico teso a legittimarle. A riconfermare la propria avversione al militarismo, in occasione delle elezioni del 1919 il Psi utilizzò la formula dell’ «indegnità morale» per escludere dalle liste chiunque, a qualunque titolo, avesse appoggiato la guerra, estendendo la disposizione a coloro che non avevano rifiutato la chiamata alle armi. In occasione delle feste nazionali molti comuni amministrati dai socialisti rifiutarono di esporre il tricolore e dovettero intervenire i prefetti per costringerli a tornare su quella decisione. Per imporre l’assunzione del maggior numero possibile di lavoratori per il maggior numero possibile di giorni, i socialisti si impegnarono in una lotta tesa a ridurre o addirittura a proibire l’impiego delle macchine agricole. Al consiglio nazionale del Psi dell’aprile 1920 il segretario Egidio Gennari affermò che compito dei loro deputati non era altro che quello di «ostacolare il funzionamento dell’istituto parlamentare». Il massimalismo socialista, secondo l’autore, «deve essere considerato la causa principale che valse a giustificare presso l’opinione pubblica moderata l’azione violenta del fascismo, guadagnandogli un vero consenso di massa». A differenza di quel che accadde in Germania, dove le istituzioni parlamentari godevano all’epoca di un presidio politico poderosissimo sulla propria sinistra rappresentato dalla Spd, in Italia «il Partito socialista anticipò il fascismo nell’attacco alle istituzioni, svolgendo in un certo senso, ma con maggior vigo-
re, il medesimo ruolo destabilizzante e antisistema svolto in Germania dal Partito comunista».
E veniamo alla seconda data. Il 18 aprile del 1948 – il giorno in cui la Dc di Alcide De Gasperi vinse la più importante tornata elettorale del dopoguerra per la prima legislatura repubblicana – è visto come fine dell’«ambiguità dell’antifascismo», che fin lì poteva essere evocato per fondare modelli di democrazia dai contenuti di fatto opposti. Ricorda, l’autore, le parole di De Gasperi, il quale già nel 1944 definiva l’antifascismo «un fenomeno politico contingente che, ad un certo punto, per il bene e il progresso della nazione, sarà superato da nuove solidarietà politiche, più inerenti alle correnti essenziali e costanti della nostra vita pubblica». E quelle di Mario Scelba, che intravedeva nell’eliminazione degli ex fascisti la cancellazione di «uno strumento di ricatto politico» dal momento che tutti i funzionari erano «sotto la spada di Damocle dell’epurazione per sfuggire alla quale bastava iscriversi al Partito comunista». Il libro riporta le parole di Lelio Basso, che nel febbraio 1947, da segretario di un Partito socialista alleato al Pci (fatale errore commesso dal Psi, in ciò diverso da tutti i più importanti partiti socialisti europei), si batteva «per impedire la nascita della repubblica borghese contro l’auspicata repubblica dei lavoratori». In un comizio del ”47 Basso diceva: « necessario anche violare la legalità… ogni volta che la democrazia ha fatto un passo in avanti nella storia, ha dovuto voltare le spalle alla legalità… è violando la legge che si forma la coscienza della lotta di classe e quindi la coscienza democratica». Ferruccio Parri, dopo il colpo con il quale i comunisti nel febbraio 1948 si impadronirono del potere a Praga, così commentò l’uscita di molti ex resistenti azionisti dall’Anpi: «Bisogna dare per scontata l’impossibilità per i partigiani non comunisti di rimanere ancora in questa organizzazione». A causa di queste antinomie, secondo l’autore, la Resistenza non riuscì ad essere, dunque, uno stabile punto di riferimento per la rinascita della democrazia nel secondo dopoguerra. E Galli conclude con una riflessione sulla «singolare circostanza per cui l’esperienza politica dell’Italia democratica in tanto poté avere inizio in quanto vi fu la rottura di quell’antifascismo stesso che si era storicamente incarnato nella fase decisiva della Resistenza».
E fu La repubblica dei partiti (così è intitolato il libro di Pietro Scoppola, edito dal Mulino, che racconta la storia dell’Italia repubblicana) come già, sui partiti, si era strutturato il Comitato di liberazione nazionale. Ma non è tutto. Il 18 aprile segna l’avvento al potere «non già di un partito, ma di una vera e propria parte del Paese, quella che in obbedienza ai dettami antiliberali della Chiesa e alle prerogative del Papa-re non si era riconosciuta nel Risorgimento e che, proprio per questo, si era tenuta, ed era stata tenuta, ai margini del sistema politico, venendo quasi considerata, insieme ai "rossi", fuori dalla legittimità monarchico-costituzionale». Come mai? Nel vuoto creatosi con la caduta del fascismo, vuoto che i partiti ancora disorganizzati e i loro esigui gruppi dirigenti non potevano certo riempire, la Dc, con alle spalle la Chiesa (tre quarti dei deputati democristiani eletti nel 1946 all’Assemblea Costituente proveniva dall’Azione cattolica) era la sola a poter reggere l’urto di socialisti e comunisti, ma soprattutto a potersi fare carico della responsabilità di guidare il Paese.
Più complicato è affrontare il tema della terza data: il 27 marzo 1994. Più complicato perché, mette le mani avanti Galli della Loggia, «oggi è più facile, in generale, parlare di Hitler che di Berlusconi». Nel senso che nessuno rischia di passare per un simpatizzante del nazismo se gli capita di sostenere che ci sono ragioni oggettive che spiegano il successo di Hitler. Mentre se si dice che l’ascesa di Berlusconi e il mantenimento del suo potere sono stati assai favoriti dalle contraddizioni delle inchieste di «Mani pulite» e dalla raffica di procedimenti a suo carico «non solo si suscita, specie in certi ambienti, una diffusa incredulità ma si rischia di essere sospettati di "stare dalla parte di Berlusconi", incorrendo con ciò in un’immediata scomunica». Galli accetta la sfida. Analizza una per una le patologie che portarono alla crisi della Prima Repubblica; ricorda che la legge sul finanziamento pubblico dei partiti varata nel 1974, che prevedeva sanzioni severe per i trasgressori, per quasi vent’anni restò lì a languire (nella legislatura 1987-92 non pervenne alla Camera dei deputati neanche una richiesta di autorizzazione a procedere per violazione di quelle norme, neanche una!); riprende le riflessioni di un acuto libro di Luciano Cafagna, Una strana disfatta (Marsilio), sul crollo dei socialisti e degli altri partiti di governo; si sofferma su un altro libro – quello di Guido Crainz, Il Paese mancato (Donzelli) – per interrogarsi su come fecero gli ex comunisti, nonostante le loro stesse ammissioni, a cavarsela con non più di qualche graffio; riconosce alla magistratura i meriti che le spettano pur imputandole la «perdita di quell’immagine di assoluta neutralità, senza la quale non può esservi fiducia nella giustizia»; riconosce a Berlusconi il merito di essere stato «indiscutibilmente» l’artefice del bipolarismo italiano. «Le ragioni oggettivamente positive legate al ruolo sistemico svolto di fatto da Berlusconi», scrive Galli della Loggia, «vengono a trovarsi singolarmente in contrasto con le caratteristiche negative legate al suo ruolo sociale». Silvio Berlusconi, prosegue, «ha saputo vedere e interpretare meglio il vuoto che si era creato, e lo ha utilizzato per costruirvi un disegno politico a suo gusto e misura; non già facendo appello a chissà quali pulsioni liberticide e autoritarie, che in verità all’Italia sono mancate anche quando vi regnava un regime che liberticida e autoritario lo era davvero; bensì strizzando l’occhio complice – mi pare l’espressione più adatta – agli animal spirits dell’imprenditoria diffusa, al particulare egoistico e al buon senso della piccola gente, al gusto per la favola televisiva dei troppi incolti che la nostra scuola lascia tali». A noi sembra, come quelle di cui alle date precedenti, un’analisi seria, ben argomentata, condivisibile. C’è da sperare che chi non dovesse condividerla – e ci sarà, come è ovvio che sia – si pronunci con argomenti e non con anatemi. Sarebbe un bel segnale di incivilimento del nostro modo di discutere della storia recente.
Paolo Mieli