Sergio Biagini, Il Messaggero 18/5/2010, 18 maggio 2010
LA FABBRICA DELE DONNE SOLDATO
Ascoli - Entrano ragazze con i sogni nello zaino, ed escono donne-soldato capaci di maneggiare un fucile d’assalto Ar 70-90 e di fare onore alla bandiera italiana a ogni latitudine. Qui alla caserma Clementi, sede del 235° Reggimento Piceno, unico centro di addestramento italiano per le volontarie, sono passate dal 2000 a oggi tredicimila ragazze con la divisa. Tra cui il caporale Cristina Buonacucina ferita ieri in Afghanistan, che aveva svolto l’ultimo corso a cavallo tra il 2008 e il 2009. Arrivano soprattutto dal sud, con tanti ideali e una passione smisurata per la divisa. Imparano a sparare al poligono, a tirare le bombe a mano a Ripe di Civitella, si sottopongono a un addestramento duro di nove ore al giorno. Addio alle comodità di casa. Sveglia alle sei del mattino e poi l’alzabandiera, le lezioni teoriche e pratiche, l’addestramento fisico e quei test periodici da superare se si vuol continuare a coltivare il sogno. Dopo tre mesi il ”giuramento”, il momento più bello con le mamme, i papà, i fidanzati e i mariti che ti guardano marciare in perfetta formazione. E poi via per le scuole di specializzazione e i reparti operativi e per il prossimo passo. Dopo un anno, a 800-900 euro al mese si può passare per concorso a ”Volontarie in ferma prefissata 4” e allora lo stipendio arriva a 1.200 euro. E dopo quattro anni si apre la possibilità di diventare Vsp, volontarie in servizio permanente. Dunque soldati di professione. «Ma non è per lo stipendio o per la prospettiva di un lavoro sicuro che si entra in caserma» dice Mesia Eramo, 29 anni, di Frosinone, caporal maggiore, tra le prime donne soldato delle forze armate, uscita dal terzo corso nel 2001 dalla Caserma Clementi comandata oggi dal col. Ciro Annicchiarico. «C’è tutto un mondo di ideali e di motivazioni che spingono a lavorare per la pace, per dare una speranza a chi ha bisogno. Io in Afghanistan ci sono stata nel 2006 per sei mesi. E so che vuol dire stare dentro quei blindati, girare in pattuglia, effettuare posti di blocco. Non si pensa alla paura, ma si pensa a quegli sguardi di mamme e di bambini che hanno fame e al modo in cui aiutarli. Può sembrare strano ma gli attentati non ci distolgono dalla nostra missione. Forse qualche attimo di scoramento, sì, è umano. Ma si crea ancora più forte un legame tra noi e la popolazione, e vince il desiderio di portare a termine ciò per cui si sta lavorando. Guai a lasciare qualcosa di incompiuto, sarebbe impensabile e irrispettoso nei confronti di chi ha dato la vita». Mesia Eramo, è una tipa tosta. Anche se non si sente una ”Ramba”. Tre anni con la Brigata Folgore, è passata poi al secondo reggimento Alpini di Cuneo. Ha al suo attivo la Bosnia, il Kosovo e in Afghanistan ha vissuto in prima persona le tragedie dei commilitoni Manuel Fiorito, Luca Polsinelli, Giorgio Langella e Vincenzo Cardella uccisi in due attentati vicino a Kabul. «Ero radiofonista, come Cristina Buonacucina, e stavo dentro i ”Puma” ora sostituiti dai ”Lince”. Eravamo impegnati in servizi di scorta o nella consegna di aiuti alla popolazione, scortavamo i medici. Ma ripeto, non avevamo eccessivi timori. Siamo ben addestrati e ci hanno insegnato a controllarla la paura. Quello che contava era l’affetto della popolazione. E non a caso dove sono morti Fiorito e Polsinelli ora hanno costruito un ospedale. Un bel messaggio: da una grande perdita è nato qualcosa di positivo per quel Paese». Ora in Afghanistan sono 83 le donne soldato del contingente italiano di 3.100 militari schierato a Herat. In quanto a Mesia non ha dubbi: «Chiederò di tornare in Afghanistan, c’è ancora molto da fare».