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 2010  maggio 17 Lunedì calendario

PAGLIARO, IL DELFINO DI CUCCIA CHE NON VUOL FINIRE NELLA RAGNATELA DI GERONZI SE GENERALI VORR PORTARE AVANTI UNA STRATEGIA DI CRESCITA INTERNAZIONALE, LA STORICA QUOTA DELLA BANCA NEL GRUPPO ASSICURATIVO POTREBBE DILUIRSI

L’ascesa di Renato Pagliaro, storico dirigente di Mediobanca, alla carica di presidente viene interpretata in due modi sostanzialmente differenti. Da una parte ha il significato del ritorno al potere dei manager che si sono formati internamente alla banca, in quanto Pagliaro lavora in Piazzetta Cuccia da 29 anni, essendovi approdato da giovane neolaureato alla Bocconi a soli 24 anni e avendo trascorso nelle mura del Palazzo Visconti Ajmi tutta la sua carriera di banchiere. Dall’altra con la partenza di Cesare Geronzi verso la presidenza del Leone di Trieste, principale e storica partecipazione di Mediobanca, si temono contraccolpi all’interno della galassia che possano far rimpiangere le scelte della primavera 2010.
Nel corso della sua prima esperienza in via Filodrammatici Pagliaro è riuscito in poco tempo a farsi apprezzare dal fondatore dell’istituto, Enrico Cuccia, e poi anche dal suo delfino, Vincenzo Maranghi. Il fatto che ora sia stato scelto dai principali azionisti della banca per la poltrona di presidente ha dunque un significato molto forte, un segnale che va nella direzione della tradizione. E auspicato dallo stesso Cuccia che mise per iscritto in una lettera indirizzata a Maranghi che il successore per gli anni a venire non poteva che essere lui. Ma va anche detto che i principali sostenitori della soluzione Pagliaro alla presidenza di Mediobanca si sono dimostrati i soci esteri, capitanati dal finanziere bretone Vincent Bollorè, che nella primavera del 2003 si erano inseriti nella battaglia ingaggiata dalle banche italiane per cacciare Maranghi da Mediobanca.
L’ex amministratore delegato, in quei mesi di grande sofferenza, si era dimostrato disponibile a farsi da parte solo alla condizione che si fosse mantenuta l’integrità della banca e del suo management, indicando in Pagliaro e in Alberto Nagel, ma soprattutto nel primo, i rappresentanti della continuità dell’istituto. Poi accadde che Alessandro Profumo, che per primo attraverso Unicredit sferrò l’attacco alle Generali e uscì vincitore da quella battaglia, decise di indicare Gabriele Galateri alla presidenza di Mediobanca e di promuovere Nagel alla carica di amministratore delegato, scavalcando in un certo senso Pagliaro anche se tra i due i compiti e le aree di influenza all’interno della banca sono rimasti sempre ben delimitati. Al primo l’area mercati e al secondo l’area partecipazioni, una suddivisione che ricalca fedelmente l’impostazione bifronte voluta da Cuccia fin dalla sua fondazione. Un istituto che eroga finanziamenti a medio lungo termine e che allo stesso tempo investe con partecipazioni di minoranza nelle società che sono snodi cruciali della finanza e dell’economia italiana. Queste società, al tempo stesso, sono anche azioniste di Mediobanca e clienti della merchant bank nel momento in cui debbano affrontare operazioni di mercato o di fusione e acquisizioni.
Insomma non è un mistero che il sistema Mediobanca per molti anni ha avuto la caratteristica dell’autorefenzialità e di questo sistema il management era il perno, anche e soprattutto di potere, attorno a cui girava il tutto. Con la fuoriuscita di Maranghi e con l’evoluzione dei mercati finanziari e delle aziende italiane il tasso di autoreferenzialità è sicuramente diminuito, anche se non è scomparso del tutto.
Il portafoglio partecipazioni di Mediobanca è stato sfrondato pur rimanendo presenti tre capisaldi importanti: il 13,2% di Generali, il 14% di Rcs Mediagroup e il 2,7% di Telecom controllato indirettamente con altri soci come Intesa Sanpaolo e la stessa Generali. logico aspettarsi che Pagliaro le sovrintenderà anche dall’alto della presidenza attraverso il suo braccio destro Clemente Rebecchini, promosso direttore centrale proprio con la delega sulle partecipazioni.
Ma la più grande incognita sul futuro di Mediobanca è stata e sarà nei prossimi anni legata al suo ex presidente, Cesare Geronzi. Il banchiere capitolino è riuscito a sganciarsi al momento opportuno da Capitalia, risanata da Matteo Arpe e rifilata all’Unicredit di Alessandro Profumo alla vigilia del grande crollo della finanza in cambio della poltrona presidenziale di Piazzetta Cuccia. Ora, dopo tre anni in cui anche il titolo Mediobanca è crollato pesantemente da 12 a meno di 6 euro, Geronzi è riuscito a convincere gli azionisti del Leone che era tempo di un suo trasferimento al vertice della prima compagnia assicurativa italiana. Con quale obbiettivo è ancora presto per dirlo, tuttavia tutte le ipotesi che sono circolate al riguardo non sono di buon auspicio per la merchant bank milanese. In tutti i casi si parla di una maggiore indipendenza del Leone da Mediobanca, il che significherebbe un allentamento di quel legame che Cuccia e Maranghi avevano stretto il più possibile e che ha indotto l’Antitrust, a seguito di diverse inchieste, a scrivere che esiste un controllo di fatto della seconda sulla prima. Controllo che il management milanese ha sempre negato e che obbiettivamente si è allentato grazie all’ingresso nell’azionariato di Trieste di diversi investitori singoli di un certo peso, da Francesco Gaetano Caltagirone a Leonardo Del Vecchio al gruppo De Agostini.
In Mediobanca dunque ancor oggi si stanno domandando se hanno fatto bene ad acconsentire la migrazione di Geronzi verso Generali che ai loro occhi appariva come un sollievo visto che si portava dietro la contestuale ascesa di Pagliaro o se traguardata sul medio periodo questa scelta non possa trasformarsi in un boomerang per le imprevedibili ricadute nei rapporti tra Milano e Trieste. In pratica, ci si chiede, che cosa potrà fare l’onesto, corretto e super competente Pagliaro se tutt’a un tratto la tela di Geronzi tessuta tra gli azionisti forti decidesse che fosse giunto il momento di una fusione tra Mediobanca e Generali dove è la seconda che mangia la prima e non viceversa? Oppure, che cosa direbbe Mediobanca se a un certo punto Generali si accollasse il peso di un salvataggio importante, come potrebbe essere quello delle società di Ligresti? E ancora, come si comporterà Mediobanca e, in primis, il suo presidente, se Generali vorrà portare avanti una strategia di crescita sui mercati internazionali attraverso acquisizioni che in qualche modo porteranno a una diluizione consistente della storica partecipazione di Mediobanca in Generali? L’ex presidente Antoine Bernheim al momento della sua polemica uscita dalla compagnia ha denunciato lo scontro che a più riprese si è registrato con il suo "controllore" di fronte a una strategia di crescita per linee esterne. Se adesso fosse Geronzi a portarla avanti lo scontro con Pagliaro e Nagel potrebbe improvvisamente divampare, sempre che trovi il necessario consenso all’interno del consiglio di amministrazione di Trieste che a ben vedere è equilibrato, come dimostra la recente astensione di tre consiglieri delle minoranze sulla remunerazione da riconoscere al neo presidente.
Dunque, riepilogando, il Pagliaro seduto sulla poltrona più importante del tempio della finanza milanese è al tempo stesso una garanzia e un pericolo potenziale. Il banchiere 53 enne, che ha cominciato timbrando il cartellino come un qualsiasi impiegato, che si muove per la città in bicicletta e che si autodefinisce un "sostanzialista" per la sua capacità di concentrarsi sul cuore dei problemi senza badare a chiacchiere e fronzoli inutili, ha comunque di fronte un compito non facile. Deve garantire la continuità della banca sotto il profilo manageriale e della redditività ma soprattutto deve capire se l’impostazione originaria, un giano bifronte diviso tra investment banking e partecipazioni, sarà ancora il modello di banca vincente nel medio periodo. Pagliaro e Nagel, in effetti, hanno già battuto un colpo in direzione della modernità, lanciando due anni fa gli sportelli leggeri di CheBanca! e sviluppando le aree strategiche del risparmio gestito (Esperia) e del credito al consumo (Compass). Ma ora devono fare il salto di qualità, avere la capacità di sviluppare rapporti istituzionali e con il sistema e avere lungimiranza strategica per anticipare qualsiasi mossa che possa andare nella direzione dell’annegamento di Piazzetta Cuccia in un mare più ampio di cui non si conoscono i confini.