LEONETTA BENTIVOGLIO, la Repubblica 16/5/2010, 16 maggio 2010
PETER BROOK
L’incontro con Il Flauto Magico di Mozart pare un accadimento naturale e inevitabile nel viaggio di ricerca di quel purista del gioco scenico che è Peter Brook, probabilmente il massimo regista teatrale vivente, attratto dalle dimensioni più elevate ma anche più sensuali e contingenti dell´espressione artistica. Brook è l´interprete per eccellenza della genialità del semplice, il cantore di un´essenzialità che da miraggio diviene contenuto. Da tempo insegue la rappresentazione distillata del cuore delle cose, quello catturato dal suo amato Shakespeare, o raccolto dalla magia bambina eppure sapientissima di Mozart, dove la sfera del naïf si fa iniziatica e rituale, come nel Flauto. «In ogni musica mozartiana emerge la voce di un uomo che ha cinque anni e ne ha pure cento o mille, perché dimostra di aver compreso e attraversato tutto, ogni esperienza della vita», afferma Brook. «Nel Don Giovanni affiora il Mozart più passionale, l´amante del sesso e delle donne, ma anche il colpevole oppresso dal rimorso, che teme il rogo dell´inferno e ciò nonostante scherza nell´intrecciare i generi in un´opera buffa e drammatica, giocosa e invasa da presagi metafisici. In ogni istante Mozart è il mistero della morte e un´esuberanza vitale travolgente».
A proposito del Flauto si tende spesso a evocare il Mozart votato alla massoneria, «ma sono idee che servono solo ad appesantire il tutto. La verità è che la musica mozartiana è qui per noi con ineffabile ricchezza, dimostrandoci che il compositore non fa alcuna propaganda di concetti filosofici o teorie; piuttosto vuole e sa comunicarci un sentimento che corrisponde alla sua iniziazione spirituale e al tempo stesso è generoso nel farci percepire il Papageno che è in lui: il magnifico buffone, l´eterno fanciullo, la risata che affranca l´esistenza dalle briglie delle convenzioni».
Brook metterà in scena il suo Flauto Magico nel teatro delle Bouffes du Nord, sede del Centre International de Créations Théâtrales che ha fondato a Parigi nei primi anni Settanta: un ex padiglione industriale dalle atmosfere slabbrate e fascinose, a pochi passi dalla Gare du Nord. Debutto il 9 novembre di quest´anno, con repliche fino a tutto dicembre; e dal 22 febbraio al 19 marzo 2011 lo spettacolo arriverà al Piccolo Teatro Strehler di Milano, coproduttore dell´impresa. «Il mio unico punto di partenza sarà la musica di Mozart, senza premesse figurative. Ogni regista che affronta Il Flauto si chiede: quale stile scenografico caratterizzerà l´allestimento? Una complessa scena d´epoca, con ingranaggi che consentono trasformazioni a vista? Una cornice moderna, con le vistose tecniche e possibilità di Broadway? O qualcosa di super-contemporaneo, con proiezioni e video, come va di moda oggi? Invece qui alle Bouffes eviteremo tutto questo, cominciando da un grado zero dell´immaginazione, e affidandoci solo all´ispirazione di una musica profondamente umana, che abbiamo riadattato insieme al musicista Franck Krawczyk e che verrà eseguita al pianoforte da Alain Planès, forse con l´intervento di qualche altro strumento, sulla base della riduzione del libretto che ho fatto con Marie-Héléne Estienne. In scena ci sarà un piccolo gruppo di cantanti giovani, aperti e disponibili a un lungo lavoro d´improvvisazione sui personaggi che stiamo per iniziare adesso». Il risultato finale durerà appena un´ora e mezza, «perché bisogna avere il coraggio d´intervenire sulle lungaggini e assurdità del librettista Schikaneder, l´impresario che commissionando a Mozart il Flauto cercava un successone per il suo teatro di periferia, e che costruendone la trama pensava soprattutto a un ruolo comico per sé, quello di Papageno». Sbrogliando, asciugando, depurando, in vista di un´azione «intima e leggera, che illumini la linee della musica come se le si ascoltassero per la prima volta», Brook, in questo Flauto Magico («forse lo intitoleremo semplicemente Un Flauto»), si avventurerà nella medesima «distillazione» realizzata nella Tragédie de Carmen, con cui negli anni Ottanta, suscitando le ire dei melomani, tradusse la Carmen di Bizet in un´opera lieve e disadorna, ricreata per trovare «la sorgente della narrazione e la finezza della partitura» all´opposto dell´artificialità del melodramma. Un manifesto contro le varie Carmen «ridondanti di balletti, festosità forzate, automatismi da grand spectacle»; e nella stessa prospettiva anti-effettistica, il regista inglese ha riletto il Don Giovanni, montato nel ´98 al Festival di Aix-en-Provence e accolto nello stesso anno dal Piccolo a Milano.
Nato nel 1925 a Londra da una famiglia di ebrei russi, questo spericolato contestatore della tradizione teatrale, che paradossalmente è oggi il più «classico» e puro tra i numi della scena internazionale, avverte per la prima volta «l´importanza del semplice» da bambino, di fronte a un piccolo teatro di cartone dai colori netti e con figurine terse «che trovavo tanto più convincenti del mondo là fuori». A diciassette anni, studente a Oxford (il padre lo vorrebbe laureato in legge), si fa espellere dall´università grazie ai primi, burrascosi esperimenti teatrali, e ha già messo in scena titoli di Shakespeare, Marlowe e Cocteau quando, a ventidue anni, viene assunto come direttore delle produzioni alla Royal Opera House Covent Garden di Londra, contesto che gli si rivela orripilante, con scenografie ammuffite e soprani elefantiaci e immoti. Un regno di vieux monstres gonfi di gestualità retorica e «venerati da un pubblico senza criterio, pronto a sorbirsi qualsiasi caduta di gusto. Per questo in seguito ho rifiutato sempre le regie operistiche. Solo arrivando nell´ambiente delle Bouffes du Nord ho capito che avrei potuto esplorare una lirica diversa, come adesso questo Flauto, nel quale la vicinanza tra pubblico e interpreti permetterà allo spettatore di accedere alla magia e alla tenerezza dell´opera».
Dopo l´intensissima e fruttuosa direzione della venerabile Royal Shakespeare Company e un gran numero di successi applauditi nel mondo, Brook, molto famoso negli anni Sessanta, rigetta l´appeal del teatro "borghese" per puntare a un´esperienza teatrale "diversa", lanciata in palcoscenici en plein air e in grado di scoprire testi e autori inusuali e di occupare spazi-camaleonte come le Bouffes, «un po´ cortile, un po´ casa e un po´ moschea». Lo scopo ultimo è un teatro necessario, portatore di «quell´emozione chiamata dagli inglesi the suspension of disbelief: qualcosa che, come nella tragedia greca, sospenda l´incredulità di chi sta guardando». In vista di tale obiettivo, Brook fa rivivere la leggenda di Prometeo tra le rovine di Persepoli, evoca la cultura tribale africana (Les Iks), attinge alla tradizione persiana (La conferenza degli uccelli), s´immerge nella sterminata densità del pensiero indù (il Mahabharata), svela la straordinaria vitalità del teatro politico sudafricano, indaga i testi "neurologici" di Oliver Sacks accanto a Cechov, a Beckett e all´irrinunciabile Shakespeare. E non rinuncia all´affondo nei guasti provocati dal fanatismo religioso, come nello spettacolo del 2005 Tierno Bokar, ispirato a una storia dello scrittore del Mali Amadou Hampaté Bâ. La nuova versione inglese di questo pezzo, intitolata Eleven and Twelve, sarà quest´anno al Festival di Spoleto (2, 3 e 4 luglio).
«Tierno Bokar è eloquentissimo sull´Islam e sui nessi tra religione e politica. Ogni africano ha una sua religiosità, alimentata da un forte rapporto con la natura, che assume forme diverse tra cui l´islamismo. All´inizio della vicenda Tierno Bokar, nel suo villaggio, vive in un´oasi di felicità e saggezza. Ma ad alterare la situazione giungono conflitti tribali e intolleranze, causa di faide e massacri. Ed è qui che l´opera si apre alla Storia, nella linea di Shakespeare», genio miracoloso che nel suo teatro sa collegare i vari piani dell´esistenza, «quello volgare o popolare, quello sociale e politico, e quello metafisico, in un passaggio continuo tra cielo e terra».
Ma esiste il pubblico che recepisce tutto questo? La scena teatrale non è forse cambiata radicalmente, in un impoverimento progressivo, tra l´indifferenza o lo spregio dei governanti e l´assottigliarsi del dialogo con le grandi platee, che sembrano sempre più lontane dal suo tipo di ricerca? «Parlare di pubblico in generale è un´astrazione, non esiste un unico interlocutore, ci sono tanti individui diversi. Oggi il pubblico teatrale è un´élite, parola che negli anni Sessanta era politicamente scorretta, mentre adesso è altro. Grazie alla televisione e a Internet non c´è più alcuna élite nella comunicazione e nell´arte, nessun prodotto artistico è inaccessibile, e il teatro come élite vuol dire un luogo rigenerante e positivo fatto per chiunque abbia voglia di andarci nel desiderio di condividere un´esperienza non raggiungibile nell´isolamento e davanti al gelo di uno schermo».
Quanto ai governi che nella crisi tagliano i contributi alla cultura, «il solo modo per fronteggiare tutto questo», sostiene Brook, «è prendere esempio dai massimi maestri di tutti i tempi: Shakespeare e Mozart erano due lavoratori costretti ad arrangiarsi con gli strumenti che avevano a disposizione, l´uno creando un teatro popolare, l´altro accettando le commissioni dei suoi sponsor, ma entrambi senza compromettere l´autenticità e l´onestà della rispettiva ricerca. Malgrado la mancanza di fondi e l´idiozia dei governanti, l´arte resta il luogo del possibile».