VARIE, 17 maggio 2010
METTERSI IN PROPRIO. PER VOCEARANCIO
C’è chi aveva un lavoro ma lo ha perso. E chi si è laureato da poco e non trova da lavorare. C’è chi, con più difficoltà di un tempo, continua ad arrangiarsi tra contratti a termine, a progetto o finte partite Iva. Effetti della crisi. Ma c’è anche chi invece ha trovato e si tiene stretto il tanto ambito posto fisso, anche se ha scoperto che non è precisamente quello che voleva. C’è chi è stanco di prendere ordini, chi è convinto di avere l’idea giusta, chi ha voglia di mettersi in gioco. A tutti loro, come a tanti altri, la tentazione prima o poi arriva, ed alcuni li porta fino in fondo. E fa dire: ”Io mi metto in proprio”.
Decidere di avviare un’impresa, oggi, può essere una soluzione. Le ultime rilevazioni della Camera di Commercio dicono che sono state 123mila le imprese nate in Italia nei primi tre mesi di quest’anno. Cifre che, come sempre, vanno lette con attenzione. Perché non è affatto detto che siano ”spuntati” 123mila nuovi imprenditori, dato che non c’è limite al numero di aziende che qualcuno può avviare, e anche perché negli stessi tre mesi di aziende ne sono state chiuse 139mila. Bisogna anche aggiungere che l’ultimo anno in cui nel primo trimestre sono state aperte più aziende di quante ne siano state chiuse è il lontano 2002.
Comunque l’Italia è anche un paese di imprenditori. Oggi abbiamo 6 milioni di imprese, più di una ogni dieci abitanti. Quasi un milione di loro sono in Lombardia, mentre il Veneto, il Lazio e la Campania ne hanno ognuna più di mezzo milione. Poco meno di mezzo milione, invece, le imprese in Emilia, Piemonte, Toscana e Sicilia. Nella stragrande maggioranza dei casi (il 98%) si tratta sempre di piccole o piccolissime imprese, con meno di 9 dipendenti.
Sembrerebbe che quello che non ci manca sono proprio gli imprenditori. Ma quello delle aziende è, per sua natura, un sistema nel quale c’è sempre spazio per qualcosa di nuovo, che chiede il rinnovamento per sopravvivere. Conviene anche ricordare che, in media, ogni anno il ”ricambio” va a toccare il 15% dello stock di imprese italiane: significa che tra aperture e chiusure si rinnova annualmente il 15% del sistema imprenditoriale nazionale.
Se qualcuno ha un’idea, il coraggio di scommetterci, l’ambizione e le capacità economiche per provarci, può lanciare la sua azienda. Magari partendo col chiarirsi un po’ le idee.
La prima cosa da fare, consiglia la Camere di Commercio (che sono l’ente pubblico di riferimento per le imprese) è scrivere un ”business plan”, cioè un ”progetto d’azienda”. Il business plan è un documento, di almeno una decina di pagine, in cui l’aspirante imprenditore delinea in maniera chiara le caratteristiche fondamentali dell’azienda che vuole creare. Un business plan ben fatto è indispensabile per potere convincere della bontà del proprio progetto le banche (alle quali, quasi sempre, servirà chiedere dei finanziamenti), eventuali soci, gli enti pubblici che potrebbero garantire altri finanziamenti, i clienti e tutti gli altri interlocutori con cui si avrà a che fare prima dello ”start up” (il momento dell’avvio) e per i mesi che seguono l’inizio dell’attività.
Il business plan farà anche da guida per il neo imprenditore, che potrà sempre usarlo come riferimento per la gestione della sua attività. Non esistono schemi tipici o regole generali per la redazione del business plan: ogni neo imprenditore può adeguarlo agli obiettivi ed alle finalità prefissate. Però, in generale nel business plan devono essere presenti almeno quattro elementi essenziali:
 la definizione del prodotto o del servizio di cui ci si occuperà
 l’analisi del mercato nel quale si vuole entrare
 la struttura che si vuole dare all’impresa
 le risorse necessarie all’avvio dell’attività
Il primo punto, almeno di solito, è quello che l’aspirante imprenditore ha già chiaro fin dall’inizio. La definizione del prodotto è solo la chiara definizione di quello di cosa si vuole fare: bisogna spiegare cioè l’intuizione che ci ha portati a scegliere di mettersi in proprio e dare vita a un impresa, quindi il prodotto che si vuole commercializzare e i bisogni che va a soddisfare.
Nella definizione del prodotto il neo imprenditore inserisce di solito anche una propria presentazione, per far capire agli interlocutori che tipo di persona è, che cosa ha fatto fino a quel momento, perché pensa di potere avere successo con un’impresa.
L’analisi del mercato è già più complessa. Bisogna studiare il mercato che già esiste (se esiste) per il prodotto o il servizio di cui ci si vuole occupare. L’analisi deve allora definire la dimensione attuale e potenziale di questo mercato (sia a livello di giro d’affari che di spazi geografici di riferimento), i clienti di riferimento, le tendenze del settore, i concorrenti, la struttura di distribuzione esistente. Sono tutti elementi che ci aiutano a rispondere ad una prima, ovvia, domanda: perché la mia azienda dovrebbe potere avere successo?
Le informazioni sul mercato oggi non sono molto difficili da trovare. Ci si può affidare agli studi pubblicati dalle associazioni di categoria (come quelle settoriali che fanno parte di Confindustria), che definiscono la dimensione e le dinamiche del mercato. Se quello che ci interessa è un mercato molto più ristretto (come un comune) allora conviene rivolgersi direttamente alla Camera di Commercio locale, che ci può dare i dati statistici sull’attività del territorio. Andare infine a leggere i bilanci delle aziende della concorrenza (pubblici, per legge, nelle società di capitali) aiuta a capire i pregi e i difetti dei nostri futuri rivali.
Studiate le caratteristiche dei concorrenti, il passo successivo è vedere come lavorano: bisogna capire come vendono, che immagine riescono a comunicare ai clienti, che grado di soddisfazione danno, quali prezzi stanno praticando. Tutte informazioni che ci possono dare spunti sulle strategie migliori da adottare.
Quello che deve uscire dall’analisi del mercato sono i confini dello spazio esistente per l’azienda che si vuole fondare. Può essere uno spazio lasciato sgombro dalle carenze dei concorrenti, o liberato da nuove esigenze dei clienti, o anche sollecitato dalla validità della nostra intuizione (che può essere un prodotto migliore o più economico rispetto a quello dei concorrenti). Può succedere che dal’analisi del mercato il neo imprenditore arrivi alla conclusione che, per avere successo, serva un prodotto diverso da quello che aveva pensato all’inizio.
Fatta l’analisi del mercato si può iniziare a fissare degli obiettivi: il neo imprenditore deve essere in grado di sapere, con un certo grado di realismo, quanto potrebbe vendere, sia nei primi anni che in quelli a venire.
Chiarito quello che si vuole vendere e lo spazio esistente per il nostro prodotto bisogna definire la struttura organizzativa dell’azienda. Per definire la struttura si parte dagli obiettivi: la forma dell’azienda deve essere calibrata su quello che questa impresa deve arrivare a fare.
Il primo punto da chiarire è che tipo di impresa si vuole aprire: si può scegliere una ditta individuale o una ditta famigliare, una società di persone, una società di capitali o una cooperativa. Questa è una decisione fondamentale e difficile, per la quale servirà il contributo di un commercialista.
La ditta individuale ha oneri di gestione e fiscali più contenuti rispetto alle società, ha pochi obblighi burocratici e lascia totale libertà d’azione al titolare. Il primo svantaggio, però, è che il titolare è l’unico responsabile dell’azienda e, nel caso le cose vadano male, risponderà dei suoi debiti con il proprio patrimonio. L’impresa famigliare è un’evoluzione della ditta individuale: è sostanzialmente una ditta individuale alla quale collaborano i famigliari del titolare (fino al terzo grado) senza però avere un contratto. Hanno diritto a una parte degli utili ma non hanno responsabilità d’impresa (che resta tutta al titolare).
Anche nelle società di persone i soci hanno responsabilità illimitate di fronte ai debiti: in pratica partecipano all’azienda con tutto il loro patrimonio. Ci sono tre tipi di società di persone: la Società semplice (Ss), la Società a nome comune (Snc), la Società in accomandita semplice (Sas). La Ss si usa solo per attività agricole o professionali, dato che non può fare attività commerciale. La Snc è invece la forma base della società di persone: tutti i soci sono amministratori e si può fare attività commerciale.
La Sas è una Snc in cui però ci sono due tipi di soci: gliaccomandatari, che rispondono illimitatamente per le obbligazioni della società (come i soci di una S.n.c.), e gli accomandanti, che conferiscono parte del capitale necessario all’attività ma non vi partecipano direttamente. Essi rispondono solo per la quota da loro conferita.
Si scelgono le società di persone, di solito, per attività che non richiedono grandi capitali.
Le società di capitali sono la Società a responsabilità limitata (Srl), Società per azioni (Spa), Società in accomandita per azioni (Sapa) e la Srl unipersonale. Il vantaggio, in tutti questi casi, è che ci si basa solo sul capitale sociale. Quindi il capitale è l’unica cosa che conta. E ci deve essere un’organizzazione interna più articolata rispetto a quella delle società di persone. Ci sono tre organi, ciascuno con competenze specifiche: l’assemblea dei soci, il consiglio d’amministrazione e (in alcuni casi) il collegio sindacale.
Nelle società di capitali i soci mettono in comune, appunto, dei capitali. Significa che, a differenza che nelle società di persone, il fallimento di una società di capitali non comporta il fallimento dei suoi soci (che nelle società di persone pagano i debiti con il loro patrimonio): i creditori possono rifarsi solo sul patrimonio dell’azienda. quindi una soluzione meno rischiosa. Ma è chiaro che si può fare solo quando c’è già un patrimonio considerevole che può bastare a garantire la solidità della società davanti a banche e clienti.
La forma più tradizionale di società di capitali è la Società a responsabilità a limitata. La Srl è la tipologia d’impresa più diffusa in Italia, e prevede un capitale minimo di 10mila euro, un’assemblea dei soci (che sono quelli che hanno messo i soldi) e un organo amministrativo da loro delegato. Esiste anche la Srl uni personale, che ha la caratteristica di avere un solo socio. una soluzione utile per società individuali ad alto rischio. Poi c’è la Società per azioni, in cui il capitale minimo necessario è di 120mila euro. Anche nella Spa c’è l’assemblea degli azionisti, l’organo amministrativo (il consiglio di amministrazione o l’amministratore unico) e il collegio sindacale, un organo di controllo che verifica la regolarità di gestione. Nella Spa ogni socio ha delle azioni che determinano la sua partecipazione alla società. Una Spa può emettere obbligazioni e andare in Borsa. La Società in accomandita per azioni (la Sapa) è una Spa con soci accomandati e accomandatari.
Una terza via può essere la fondazione di una Cooperativa. La Coop funziona come una srl, ma ha bisogno di almeno nove soci e non persegue come primo obiettivo gli utili, ma la soddisfazione dei bisogni personali di ogni socio. Nella Coop i soci devono partecipare attivamente alla gestione della società, e ognuno di loro ha lo stesso diritto di voto, a prescindere alle quote di capitale sottoscritte.
La scelta della forma giuridica determina quindi la rischiosità del proprio investimento nell’azienda e anche le spese iniziali. Oltre al capitale minimo da versare (che varia dagli 0 ai 120mila euro) ci sono costi burocratici e di gestione molto diversi. I costi minimi per avviare un’impresa individuale o famigliare (tra notaio, diritti camerali e tasse) ammontano a circa 1000 euro, nelle società di persone la spesa burocratica minima sale a 3mila euro, nelle società di capitali si arriva a un minimo di 6mila euro, per le Coop invece bastano 2mila euro.
Decisa la forma giuridica da dare alla nostra società, nel business plan si individua anche l’organizzazione di partenza: chi comanda, a chi spettano i vari compiti lavorativi, se servono delle assunzioni etc. Un discorso che conduce inevitabilmente all’ultima parte del business plan, quella ”finanziaria”.
Nella parte economica bisogna spiegare su quali basi economiche si costruisce l’impresa. Bisogna definire per prima cosa gli investimenti in programma: in una tabella si elencano i beni che servono (immobili, arredi, macchine d’ufficio, macchinari, attrezzatura). Dopodiché ci si aggiunge il resto del fabbisogno finanziario: le spese per il cosiddetto attivo circolante, cioè le scorte, il credito Iva, la liquidità etc. Il fabbisogno determina i soldi che occorrono per partire.
Questi soldi vanno anche trovati. Il neo imprenditore deve spiegare nel business plan come intende finanziare l’avvio dell’impresa. Indica allora i finanziamenti, che possono essere a breve termine (debiti con i fornitori, prestiti bancari di forma diversa, come l’suo dello scoperto o gli sconti di effetti) o a lungo termine, come mutui, finanziamenti agevolati o il capitale proprio concesso dai soci.
Dopodiché si arriva al conto economico vero e proprio: bisogna indicare la previsione dei costi e dei ricavi generati dall’attività di impresa nel primo periodo amministrativo (il primo anno) e nei seguenti, compresi gli ammortamenti dei beni comprati che si deteriorano negli anni. In questa fase si devono anche stilare le previsioni sui flussi di cassa che, si prevede, l’azienda genererà.
In molti di questi passaggi si può chiedere l’aiuto di consulenti esterni. La stesura del business plan può avvalersi dell’aiuto di istituzioni come le associazioni di categoria (Confindustria, Confapi, Confartigianato, Cna e Unioni artigiane), ma anche gli sportelli delle Camere di commercio sparse su tutto il territorio nazionale, la cui capillarità e i cui servizi si possono trovare su Internet.
Una volta preparato un business plan l’avvio dell’impresa, dal punto di vista burocratico, è abbastanza rapido. Dal primo aprile c’è la Comunicazione Unica obbligatori on line. Se la propria attività non è soggetta ad autorizzazioni particolari (ad es. attività edili non artigiane, procacciatori d’affari, servizi consulenziali vari svolti in forma imprenditoriale) basta un’unica comunicazione (da fare on line) alla Camera di Commercio per iniziare la propria attività: la ComUnica ingloba tutte le dichiarazioni da fare verso il Registro delle Imprese, l’Inps, l’Inail, l’Agenzia delle Entrate
L’avvio dell’attività per le nuove imprese non può precedere comunque la presentazione della domanda di iscrizione (da farsi entro 30 giorni). Ma la ricevuta rilasciata dal registro imprese con l’invio della Comunicazione Unica è già un titolo sufficiente ad autorizzare l’avvio dell’attività di impresa.