Ugo Bertone, Il Riformista 16/5/2010, 16 maggio 2010
BERNHEIM VUOLE SBRANARE LA CASSA DEL LEONE
Non preoccupatevi: anche oggi, se il sole tornerà a splendere sulla Laguna, monsieur Antoine Bernheim potrà uscire dal suo appartamento di Venezia, a carico delle Generali (spese condominiali comprese) per imbarcarsi sul ”suo” motoscafo. Per carità, suo per modo di dire: l’imbarcazione è intestata alle assicurazioni Generali che ne curano la manutenzione e le spese relative. Certo, è ancora presto per le vacanze: così Bernheim, 86 primavere il prossimo 4 settembre, in settimana volerà alla volta del suo ufficio parigino. Anche qui, bisogna intendersi: la maison è intestata alle Generali che pagano tutte le spese, dalla segretaria al telefono. E, probabilmente, anche le mance e il taxi. Insomma, il povero ex presidente del Leone di suo possiede ben poco. Per questo, probabilmente, si è battuto fino all’ultimo per il rinnovo della sua carica che, tra retribuzione fissa e premi, gli ha reso tra i 4 e i 5 milioni annui, qualcosa in più dei pari grado di Allianz e Axa, le altre compagnie leader in Europa. Gli è andata male. Per modo di dire, Benheim continuerà a ricevere un milione e mezzo all’anno, al lordo delle tasse, beninteso. O qualcosa di più, se verranno riconosciute le sue richieste da pensionato d’oro.
D’altronde il vecchio presidente ha fatto di tutto pur di non andare in pensione. Ma alla fine, ahimè, Bernheim si è dovuto rassegnare: gli azionisti, ingrati, non hanno voluto credere che ”a 85 anni si è ancora giovani”: un insulto, anzi un vero e proprio schiaffo al punto che, tra le lacrime, monsieur Antoine ha dichiarato, naturalmente tramite un giornale francese, che avrebbe rifiutato la presidenza onoraria, anche perché (cosa non dichiarata) fino a quel momento la carica onoraria non prevedeva stipendi.
Ma non temete: alla fine tutto si è sistemato. Antoine Benheim, ci fa sapere Francesco Manacorda de ”La Stampa”, da buon assicuratore prudente si era premurato di farsi sottoscrivere dal consiglio di amministrazione al momento del suo primo congedo obbligato dalle Generali nel 1999, una polizza che prevedeva un vitalizio di 1,5 milioni all’anno, reversibile, in caso di sua scomparsa, per il 60 per cento alla sua signora tanto per confortare, con una milionata all’anno, la sua vedovanza. Tale polizza, una vera e propria pensione d’oro, fu sospesa nel 2002, quando il finanziere parigino tornò in sella a Trieste, dopo la cacciata da Mediobanca di Vincenzo Maranghi. Ora, però, Berheim torna all’incasso. Anzi, oltre al vitalizio, rivendica i benefit che si addicono al suo rango di presidente onorario, carica per cui fino ad ora non era prevista alcuna prebenda. Ma parbleu, di Bernheim ce n’è uno solo.
Bando alle ironie. La sensazione è che il salotto buono della finanza italiana, da cui dipendono averi per 600miliardi abbondanti di euro abbia fatto una figura da pollo. In trent’anni che bazzica tra Trieste, Milano e la casa di Venezia, monsieur Bernheim, quello che assicurava Massimo D’Alema che ci avrebbe pensato lui a difendere ”l’identité italienne” delle Generali, non ha trovato il tempo o la cortesia di imparare una sola parola di italiano, idioma di una terra di conquista più che di un territorio da conoscere. Oggi, poi, a sostenere la sua richiesta di far
rivivere il vitalizio del ”99, è il suo pupillo bretone, Vincent Bolloré, nuovo vicepresidente a Trieste. Che importa, a pagare sono soprattutto gli azionisti ”italiens”, che per anni hanno accettato quasi senza protestare salassi del genere. Oddio, nemmeno questi ultimi scherzano: il neo presidente Cesare Geronzi non ha di che lamentarsi, con i suoi 3,3 milioni di euro, ovvero la stessa cifra che incassava in Mediobanca. Ma lo stesso Geronzi può ribattere, tabelle alla mano, che il suo stipendio non è certo un’eccezione: negli ultimi anni più di un banchiere, a partire dai suoi sottoposti Matteo Arpe ed Albero Nagel, hanno guadagnato ben di più. E queste cifre impallidiscono di fronte ai bonus d’oro incamerati dai top manager di Telecom Italia del recente passato.
Per carità, non è un fenomeno solo italiano. Anzi, proprio i bonus milionari sono una delle cause principali della bolla finanziaria di Wall Street. La decisione di agganciare le paghe dei top manager ai risultati, all’apparenza ragionevole, ha scatenato una caccia ai risultati a breve termine, senza alcuna considerazione per il rischio. Un vizio difficile da correggere, visto che in Goldman Sachs e dintorni, nonostante la crisi continui a pesare su milioni di americani, sono già tornati a correre stipendi milionari.
Ma in tempi di sacrifici per gli stipendi della gente normale, per non parlare di disoccupati o di pensionati di latta, la vicenda di questo moderno zio Paperone è difficile da digerire. In senso morale, innanzitutto. Ma anche economico, perché è suicida, con i tempi che corrono, distribuire stipendi invece che dimostrare, con una gestione oculata e attenta alle spese, che il sistema è in grado di garantire la famosa previdenza integrativa a quei milioni di risparmiatori che da anni pagano spese non indifferenti per le polizze. Chissà, forse Giulio Tremonti, alla ricerca di un tesoro nelle tasche degli italiani che non c’è in vista della finanziaria, potrebbe guardar più da vicino certi redditi d’oro. Senza attendere il prossimo scudo.