Guido Barbujani, Il Sole-24 Ore 16/5/2010;, 16 maggio 2010
LE RADICI GENETICHE DELL’EUROPA
La storia dell’umanità la conosciamo per frammenti: in senso assolutamente letterale. da frammenti di ossa fossili, di denti, di utensili, che abbiamo capito quel poco o quel tanto che abbiamo capito sui nostri antenati remoti. Lucy, forse il fossile più famoso della paleontologia umana (insieme a quello rinvenuto nella valle di Neander nel 1856: l’uomo di Neanderthal) è considerato eccezionalmente completo, eppure comprende appena il 40 per cento dello scheletro. Possediamo solo qualche frammento di molti altri nostri antenati o parenti, specie quelli più antichi (per intenderci, Lucy è vissuta in Africa 3 milioni e mezzo di anni fa; i neandertaliani in Europa, fra 300mila e 30mila anni fa). Spesso questi frammenti rappresentano tutto ciò che resta di intere popolazioni, o addirittura di intere specie umane.
Già: specie umane, al plurale. Tutti abbiamo visto quelle illustrazioni in cui creature sempre meno scimmiesche, in fila per uno, si raddrizzano sempre più, fino a trasformarsi in un signore, generalmente nudo, che cammina eretto (e poi magari, in certe versioni, torna ad accartocciarsi su se stesso per sedere a un computer). Bene, quelle illustrazioni non ce la contano giusta: l’evoluzione dell’uomo non è stata lineare. Nei sei milioni di anni o giù di lì che ci separano dall’antenato comune a noi e agli scimpanzé, sono comparse parecchie specie umane diverse. Si sono diffuse e poi si sono estinte: tutte tranne una, la nostra. Un momento, però: cosa vuol dire, esattamente, specie, e cosa vuol dire umano? Meglio accantonare per un po’ queste domande difficili, e invece parlare di un frammento minuscolo che ci ha rivelato un nuovo capitolo nella storia dell’umanità. Una falangetta: l’ultimo osso del dito. Il resto non c’è più, ma questo ossicino, vecchio di 30-50mila anni, è arrivato fino a noi, nella grotta di Denisova in Siberia.
Una falangetta è solo una falangetta, e con tutta la buona volontà sembra impossibile trarne grandi informazioni. Ma, da qualche anno, se un fossile è ben conservato (e al freddo della Siberia i fossili si conservano bene) si può cercare di estrarne il Dna. Ci ha provato, in questo caso, Svante Pääbo, il massimo esperto mondiale, e c’è riuscito; i risultati sono stati pubblicati il 24 marzo scorso (J. Krause e altri, The complete mitochondrial Dna genome of an unknown hominin from southern Siberia , «Nature» 464:894-7 e su «Science» la settimana scorsa; si vedi Il Sole 24 Ore del 5 maggio). Nei laboratori del Max Planck di Lipsia, il gruppo di Pääbo ha letto (tecnicamente: ha sequenziato) una regione del Dna già studiata non solo in tanti individui moderni, ma anche nei veri europei, gli uomini di Neanderthal.
I Neanderthal sono senza dubbio i veri europei. Fino a 30mila anni fa, mentre gente con uno scheletro come il nostro stava in Africa e poi ne usciva per diffondersi su tutto il pianeta, i neandertaliani occupavano l’Europa e un pezzetto dell’Asia. Il loro scheletro è diverso dal nostro, e quando si è riusciti a studiare il loro Dna (il primo è stato ancora Pääbo, ma due anni fa David Caramelli l’ha fatto su un neandertaliano del veronese), si è visto che ad anatomie diverse corrispondono Dna diversi. Molto diversi: in media, in quel tratto di Dna, ci sono una cinquantina di differenze fra due umani moderni, ma fra noi e i Neanderthal ci sono 202 differenze. Uno dei motivi per cui possiamo dire che i Neanderthal non sono i nostri antenati è appunto il fatto che il loro Dna è differente da quello di tutti gli europei odierni. Noi discendiamo dagli africani, mentre i veri europei, poco dopo il nostro arrivo, si sono estinti.
E l’uomo di Denisova, il proprietario di quella falangetta? Era logico pensare che fosse un neandertaliano, e invece no. Nel tratto di Dna in questione, le differenze fra noi e lui (o lei) sono il doppio che fra noi e i neanderta-liani, e lo stesso fra i neandertaliani e lui (o lei). una specie umana diversa, di cui ci rimane solo un ossicino, ma su cui siamo venuti a sapere tanto. E, se si lavorerà bene, potremo scoprire ancora di più: di che colore era la sua pelle, se digeriva il latte (probabilmente no), se era come noi o diverso da noi in tante caratteristiche scritte nel Dna. Altre caratteristiche sono destinate a sfuggirci, almeno per ora. La statura, il peso, la forma del cranio, dipendono dall’azione di tanti geni e dall’ambiente: ci capiamo ancora molto poco.
Anche così, l’uomo di Denisova ci racconta però una storia di formidabile interesse. Il suo Dna dimostra che non solo milioni di anni fa, ma fino a 50mila anni fa e forse meno, sono vissute contemporaneamente popolazioni di esseri umani diversi fra loro. Con ogni probabilità erano specie diverse, anche se non ne saremo mai sicuri. Asino e cavallo sono specie diverse perché incrociati producono figli sterili (i muli), al contrario di due cavalli, o due asini. Con i Neanderthal e con l’uomo di Denisova l’esperimento è ovviamente impossibile.
Quanto a cosa significhi essere umani, la questione è spinosa. Tecnicamente, si parla del nostro genere, il genere Homo, quando compaiono tracce archeologiche di attività di cui gli scimpanzé non sono capaci, come utilizzare uno strumento ( una pietra) per costruire un altro strumento (una pietra più affilata). Ma l’archeologia non può dirci quando si sono evolute le caratteristiche che consideriamo più profondamente umane, per esempio il linguaggio, per esempio lo stretto rapporto fra genitori e figli che si prolunga ben più che nelle altre specie di grandi scimmie. E allora preferisco cavarmela citando (senza pretendere che sia la migliore) la soluzione proposta nel libro di un grande evoluzionista e formidabile raccontatore di storie, Larry Slobodkin ( Simplicity and complexity in games of the Intellect,
Harvard University Press). Slobodkin, considerati vari fattori, ha appunto concluso che, incontrando tramite una macchina del tempo una comunità di ominidi, sarebbe stato lieto di accoglierli nell’umanità se li avesse visti raccontare delle storie e ascoltarle con piacere.