Giuseppe Berta, Il Sole-24 Ore 17/5/2010;, 17 maggio 2010
UN NEW DEAL PER I SINDACATI
L’ultimo congresso della Cgil ha mostrato, magari in controluce, che in Italia, al pari degli altri paesi sviluppati, l’esperienza sindacale si approssima a un tornante cruciale, quello della sua capacità di rappresentanza di un mondo del lavoro eterogeneo e frastagliato, da tutelare in un contesto di pesante crisi sociale. Le drastiche misure di contenimento della spesa che stanno per essere attuate in Europa, d’altro lato, avranno un effetto di contenimento della contrattazione collettiva, riducendo la funzione negoziale di un sindacato alle prese con una trasformazione dell’universo lavorativo.
Oggi coesistono mondi del lavoro che non sono omologabili all’interno di politiche sindacali elaborate a partire da condizioni occupazionali stabili, destinate a non subire né variazioni né discontinuità. Pensiamo, per esempio, al più classico degli ambienti lavorativi, contraddistinto da una propensione alla sindacalizzazione: gli operai. Da oltre vent’anni va avanti una rivoluzione silenziosa nella stratificazione sociale e nei comportamenti dei lavoratori manuali che ha finito col porre in crisi gli stereotipi sociali più resistenti. Chi potrebbe ancora identificare l’operaio col lavoratore della grande organizzazione industriale di un tempo, protagonista dei cicli maggiori della mobilitazione rivendicativa e conflittuale? Quell’immagine risulta sfidata e contraddetta da una diversa rappresentazione dell’Italia industriale, che vede una dispersione delle figure operaie sul territorio, senza più i caratteri della popolazione di fabbrica della grande industria.
In passato, i modelli sindacali e contrattuali erano sostenuti da paradigmi organizzativi e sociali che assumevano un valore di riferimento. In Italia, non c’è mai stata l’egemonia dell’industria di massa, poiché hanno sempre predominato le imprese di dimensioni minori. Peraltro, il criterio di un lavoro standardizzato e concentrato è servito ugualmente a orientare l’azione sindacale. Non così adesso, quando è venuta meno la supremazia di una forma del lavoro sull’altra e sono saltate le gerarchie sociali legate ai differenti sistemi produttivi.
Quando poi si lascia il terreno consolidato dell’impresa industriale per volgere l’attenzione all’espansione di un multiforme terziario, l’incertezza delle politiche sindacali si accentua, dovendo fare i conti con percorsi lavorativi più mossi e discontinui.
Da noi c’è stata poca attenzione per quanto sta succedendo in quelle parti del mondo dove l’azione del sindacato è più incalzata dalla trasformazione del lavoro e delle imprese, come negli Stati Uniti, in cui da tempo le rappresentanze dei lavoratori sono alla prese con la minaccia del declino. Già nel settembre 2005, sette importanti unions avevano deciso di "disaffiliarsi" dalla grande centrale Afl-Cio per costituire una nuova federazione sindacale, la cui denominazione era già di per sé un programma: Change to Win (Cambiare per vincere: i documenti fondamentali del nuovo sindacato sono stati raccolti e commentati nell’utile libro di Marianna De Luca,
Change to Win e il Sogno americano , Agrilavoro Edizioni).
sintomatico che le organizzazioni che hanno scelto di confluire in una nuova federazione siano espressione del sistema dei servizi (come la Service Employees International Union) o dei trasporti (come la ben più celebre International Brotherhood of Teamsters). Pochi i loro legami con il settore industriale in senso stretto: i loro iscritti, complessivamente 6 milioni di lavoratori, appartengono ad attività come la sanità, i servizi assistenziali e le case di cura, il commercio, gli alberghi, la ristorazione. Tutte realtà problematiche per il sindacato, lontane dalla storia contrattuale della United Automobile Workers of America,l’organizzazione natae modellatasi a partire dalle fabbriche di Detroit. Ma proprio per questo Change to Win ha avvertito più direttamente il pericolo di un cambiamento che sospinge il sindacato ai margini.Nel 2006,quando non c’erano ancora le avvisaglie della grande crisi del 2008, il numero complessivo dei lavoratori sindacalizzati in Usa era di 15,4 milioni, pari al 12% della forza lavoro.
Il perno della proposta di Change to Win sta nel tentativo di rivolgersi tendenzialmente a tutti i lavoratori, ai nuovi immigrati e al lavoro femminile in crescita, per la tutela della loro condizione sociale, anche alla scala metropolitana e territoriale.
La distanza delle relazioni industriali Usa da quelle italiane è naturalmente siderale, così come il linguaggio di Change to Win, che si appella- chissà con quanto realismo- al recupero del "sogno americano", in grado di mobilitare una volta le energie di milioni di lavoratori con la promessa di un sostanziale avanzamento sociale.
A tutt’oggi è difficile dire se gli sforzi del nuovo sindacato produrranno risultati. Non di meno, l’idea che la rappresentanza debba uscire dai canoni tradizionali per andare alla ricerca di forme di azione più tagliate a misura della condizione sociale del lavoratore è una pista da non scartare, specie in tempi di crisi che tendono a svuotare e a depotenziare i meccanismi della contrattazione collettiva. Si ricordano in questigiornii quarant’anni dello Statuto dei lavoratori,che aveva l’obiettivo originario di enfatizzare i diritti di cittadinanza all’interno del rapporto di lavoro industriale. Forse si tratta ora di compiere un percorso che valorizzi la cittadinanza sociale di lavoratori destinati ad attraversare una pluralità di condizioni di lavoro.