Marco Masciaga, Il Sole-24 Ore 16/5/2010;, 16 maggio 2010
A BANGKOK CONTINUA IL MASSACRO
Lo schiaffo che riduce al silenzio anche i più irriducibili tra le camicie rosse arriva poco dopo le 16.30. E, nel mezzo del fragore assordante delle esplosioni che rimbombano tra i grattacieli, non è che lo schiocco ovattato di una fucilata lontana.
Il commando di dimostranti che da diverse ore sta tenendo in scacco i reparti speciali dell’esercito thailandese su Rama 4, una delle principali arterie stradali di Bangkok, prima resta pietrificato. Poi inizia a chiamare a gran voce una delle ambulanze parcheggiate alle proprie spalle. Uno dei loro, un ragazzo di non più di vent’anni, è stato colpito ed è a terra, immobile, in mezzo alla strada. Nessuno ha il coraggio di uscire allo scoperto per portarlo in salvo. Finalmente un gruppo di soccorritori si fa coraggio, uno di loro viene ferito di striscio al collo e il giovane caricato su un’ambulanza. Quando la vettura parte sgommando verso l’ospedale sul marciapiede resta un uomo con in mano il casco da pompiere che un minuto prima era sulla testa del suo compagno. Tutti gli si fanno intorno per vedere da vicino. La visiera è ricoperta di sangue. E su un lato, esattamente davanti all’occhio destro, c’è il cerchio perfetto lasciato da una pallottola.
Per questa piccola pattuglia di guerrieri improvvisati, armati di fionde e bottiglie incendiarie che non voleranno mai abbastanza lontano per colpire un soldato, sembra il momento della presa di coscienza. Per qualche minuto, nel vicolo che hanno hanno trasformato nella loro anarchica e gioiosa trincea contro l’avanzare dell’esercito, regna un silenzio irreale. Nei cervelli non risuona che il ronzio lasciato nelle orecchie dalle troppe esplosioni, davanti agli sguardi atterriti non c’è più nulla se non i resti fumanti di decine di pneumatici bruciati. Il campo di battaglia di una guerra impari che ogni giorno sembra più difficile da vincere. Anche perché da giovedì sera, quando l’esercito ha ricominciato ad affiancare i proiettili veri a quelli di gomma e ai lacrimogeni, una cosa è ormai chiara: per riportare Bangkok alla normalità il governo non è solo pronto a far convergere nuovi reparti verso il centro della città, ma è anche disposto a sporcarsi le mani con il sangue dei propri cittadini. Non a caso ieri sera il primo ministro Abhisit Vejjajiva è andato personalmente in televisione a difendere l’operato delle forze di sicurezza e a ribadire che «il governo non farà marcia indietro», cercando di ridurre al minimo il numero delle vittime. Un segnale che sembra preludere a un imminente tentativo di sgomberare i manifestanti, un’operazione che per il tipo di ostinazione disperata già messa in mostra da alcune componenti delle camicie rosse potrebbe avere conseguenze disastrose. E non stupisce a questo proposito che secondo voci insistenti circolate nella serata di ieri l’ambasciata americana starebbe per lanciare un nuovo invito a tutti i cittadini Usa affinché evitino la capitale thailandese e abbia in serata evacuato il personale.
Quanti morti saranno considerate "spendibili" di qui alla fine di questa crisi infinita nessuno lo sa. Due cose sono però ormai certe: la prima è che il numero dei caduti continua a salire, gli otto di ieri hanno portato a 24 il totale dei morti da quando giovedì sono ricominciati gli scontri; la seconda è che il clima che si respira a Bangkok è sempre più pesante e grottescamente incompatibile con l’immagine di questa, un tempo, sorridente capitale degli affari, del turismo e dello shopping. Per accorgersene è sufficiente attraversare il quartiere di Ratchaprasong, diventato da sei settimane l’accampamento dei manifestanti vicini all’ex premier Thaksin Shinawatra che chiedono le dimissioni dell’attuale governo e nuove elezioni. I grandi hotel circondati dalle barricate, dall’Intercontinental al Grand Hyatt al Four Seasons continuano a restare chiusi. Mentre quelli appena fuori che rimangono aperti invitano i propri pochissimi clienti e non allontanarsi dalle loro lobby deserte e spettrali, simboli agonizzanti della crisi spaventosa attraversata dal turismo thailandese.
I centri commerciali, alcuni dei quali sono tra i più grandi dell’Asia,hanno le porte sbarrate. In lontananza, nelle strade che si diramano dal fortino dei rossi, si sentono urla, spari ed esplosioni. Alzando gli occhi verso il cielo, come se non bastasse il ronzio costante degli elicotteri militari, è impossibile non restare ipnotizzati dalle lunghe e spesse colonne di fumo nero che si alzano incongrue tra i grattacieli delle grandi banche internazionali.
Uno scenario di guerra che per il governo sta diventando ogni giorno più difficile da tollerare. Anche perché se la zona sotto il diretto controllo delle camicie rosse è relativamente circoscritta, circa 3,5 chilometri quadrati, tutto intorno non si può certo dire che la situazione sia normale. Dalle famiglie di thailandesi che attraversano le strade di corsa per paura dei cecchini ai lunghi vialideserti disseminati di pietre e rotoli di filo spinato non c’è nulla che richiami alla mente le immagini di una delle capitali più caotiche, scintillanti e sfacciatamente edonistiche dell’Asia. Paradossalmente per ritrovare un po’ della serenità perduta bisogna addentrarsi nella zona rossa, dove convivono realtà diverse. Nelle zone più centrali, lontane dagli incidenti, durante il giorno c’è una calma quasi irreale. La maggior parte dei manifestanti è composta da intere famiglie, ognuna con una piccola piazzola dove poter sonnecchiare durante le ore più calde davanti a una tv e un ventilatore. Sparse qua e là fioriscono piccole attività commerciali nate per capitalizzare sui bisogni di migliaia di persone che da settimane vivono lontane dalle proprie case: tra un comizio e l’altro c’è chi fa la fila davanti al gelataio e chi aspetta l’aperturadella tenda dove è nato un piccolo centro massaggi.
Completamente diversa l’atmosfera che si respira ai margini dell’accampamento.Qui le famiglie lasciano il posto agli uomini vestiti di nero della security che pattugliano 24 ore su 24 le barricate erette sulle principali direttrici che conducono alla zona rossa. Sono forse proprio queste barriere rudimentali l’immagine più forte dell’ostinazione con cui le camicie rosse stanno difendendo il proprio diritto a manifestare e chiedere le dimissioni di un esecutivo che considerano privo di un vero mandato politico per governare il paese. Nel momento in cui l’esercito decidesse di penetrare all’interno dell’accampamento dei dimostranti non saranno certo queste barriere fatte di pneumatici, blocchi di cemento e canne di bambù a frenare la corsa dei blindati. Ma la sensazione è che nella loro protervia puntuta e bizzarra siano proprio queste barricate i simboli più vividi di quanto si annunci disperata la battaglia per la difesa, o la riconquista, di un pezzo di città troppo importante perché una delle due parti in conflitto possa accettare di lasciarlo in mano ai propri avversari.