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 2010  maggio 15 Sabato calendario

I CAVOUR CHE FECERO L’ITALIA

Realizzare una biografia del conte di Cavour, come ha fatto Adriano Viarengo, condirettore della Rivista Storica Italiana, vuol dire affrontare una sfida tutta in salita. Innanzitutto perché la vicenda di Cavour obbliga più che mai a fare i conti con «una storia che ne contiene molte».
La nuova biografia cavouriana di Viarengo, edita da Salerno, è dunque orchestrata su numerosi e obbligati ingredienti. Vi si mescolano grandi scenari e precisi dettagli, fortunatamente mai nostalgici, su un vecchio Piemonte che forse sparisce ancora prima del giungere del Regno d’Italia. Vi è spazio per la sobria aneddotica che però cede giustamente il passo alla ricostruzione della dialettica del parlamento sabaudo tra reazionari, moderati e riformisti, mettendo a fuoco però anche i momenti cruciali dello scontro, e delle reciproche strumentalizzazioni, tra lo statista e le componenti più estreme. Quelle che Cavour definisce sarcasticamente le frange dei «rivoluzionari disposti a fare la rivoluzione con il re». Da questa angolazione il Cavour di Viarengo è un libro di efficaci e variegate tonalità: evolve dal passo attento e concentrato della prima parte - quella che segue la formazione civile e politica del giovane conte attraverso le capitali d’Europa e il suo esordio in politica - al ritmo ben più sincopato, quasi da spy story, dei capitoli centrali, dove il gioco serrato di Cavour, tra diplomazia e azzardo rivoluzionario, diventa vertiginoso. Scritta bene e redatta con rigore storiografico - si veda l’ampia bibliografia finale -l’opera si rivolge, in prossimità del centocinquantesimo anniversario dell’unità nazionale, non solo agli addetti ai lavori ma, abbastanza esplicitamente, al lettore comune.
Questa aspirazione non è nuova ma, nella pur vasta e poderosa produzione storiografia cresciuta in tanti decenni attorno a Cavour, non si è mai realizzata. Certo, l’esiguo numero di lettori è scontato quando si tratta di massicci testi di riferimento alle fonti archivistiche.
Tra queste benemerite realizzazioni vi è l’Epistolario curato per Zanichelli, sino alla scomparsa nel 2005, da Carlo Pischedda: un’opera monumentale in 19 volumi e 31 tomi, conclusasi nel 2008. Sempre Pischedda, con Giuseppe Talamo, ha curato tra il 1976 e il 1978 Tutti gli scritti di Camillo di Cavour, usciti, in quattro volumi e oltre 2000 pagine, presso il Centro Studi Piemontesi. I Discorsi parlamentari, raccolti in 15 volumi, hanno impiegato più di quarant’anni, dal 1932 al 1973, per essere editati. Prima sotto la curatela di Adolfo Omodeo, autore con Cavour e il suo tempo di una delle più importanti biografie dello statista, poi di Luigi Russo e quindi di Armando Saitta. Anche i Diari di Cavour, curati da Alfonso Bogge con assoluto rigore, sono stati editati nel 1991 dal ministero dei Beni culturali.
Tutti questi lavori sono rivolti al pubblico dei ricercatori, degli storici. Ben altra ambizione aveva la poderosa biografia a cui, lavorandoci per decenni sino a farne davvero l’opera di un’intera vita, si era dedicato lo storico Rosario Romeo, autore dei tre volumi, e delle quasi 3000 pagine, di Cavour e il suo tempo pubblicato da Laterza tra il 1969 e il 1984. La biografia avrebbe dovuto vedere la luce, sotto gli auspici della «Famija Piemonteisa», in occasione del primo centenario dell’unità d’Italia. Inizialmente, nel 1955, viene commissionata allo storico Franco Valsecchi che però declina la proposta per i troppi impegni. Si interpellano inutilmente gli accademici Alberto M. Ghisalberti, Walter Maturi e perfino Riccardo Bacchelli. Alla fine è Federico Chabod a orientare la scelta sul trentenne Rosario Romeo. Romeo, nonostante l’impressionante vastità delle ricerche archivistiche e lo spessore dell’opera, è convinto - lo scriverà nella prefazione - di realizzare un libro che, oltre a rivolgersi agli studiosi, potrà «andare alla ricerca dei propri lettori», individuati tra gli italiani «desiderosi di prendere coscienza di se stessi». Non sarà così. La prima parte di Cavour e il suo tempo esce nel 1969. Dunque non giunge puntuale all’appuntamento con il centenario dell’unità che, nel 1961, ha il suo palcoscenico più rilevante nella Torino fattasi capitale dell’emigrazione meridionale. Una ricorrenza vissuta alla luce del boom economico, delle dinamiche sociali in corso e di un Risorgimento presentato quale processo storico ancora in progress e di cui la Resistenza stessa, quasi un «Secondo Risorgimento», non sarebbe stata che una tappa. Le grandi mostre torinesi del 1961 enfatizzano poi la modernizzazione industriale e la partecipazione delle masse alla vita di uno Stato prossimo a varare le Regioni: tutte cose dalle quali il liberale Romeo, e il Cavour che vuole rievocare, sono assai distanti.
A cavallo del centenario hanno invece fortuna i saggi dello storico inglese Denis Mack Smith (dai ritratti di Cavour, Mazzini, Garibaldi alla Storia d’Italia, Laterza). Ricostruzioni che, secondo lo storico nazionalista Gioacchino Volpe, sviluppano le tesi di Gobetti e Gramsci e demoliscono un certo Risorgimento, caro alle destre, che pone al centro la costruzione dello spirito nazionale.
In quei primi Anni Sessanta, sul Risorgimento, il dibattito è vivace. Vi intervengono intellettuali e politici di primo piano, incluso Togliatti che sul Risorgimento ha avuto modo di cambiare opinione. Nel 1931, in polemica con «Giustizia e Libertà» aveva scritto che «la tradizione del Risorgimento vive nel fascismo... la rivoluzione antifascista non potrà essere che una rivoluzione contro il Risorgimento, contro la sua ideologia, contro la soluzione che essa ha dato al problema dell’unità dello Stato». Dalla svolta di Salerno del 1944 in poi emerge invece la tesi del «Risorgimento tradito» dalla borghesia che pure l’aveva avviato. Sfida dunque da completare, per opera del movimento operaio, riportandola sulla retta via, la «via italiana al socialismo».
Per Romeo non solo i saggi di Mack Smith sono «sciocchi libelli» ma, aggiunge scorato, i grandi partiti di massa sono ormai lontani dalla vera tradizione risorgimentale. Un’opinione confutata da un vasto schieramento di storici. A cominciare dal combattivo Ernesto Ragionieri che dà voce alle tesi del Pci.
Erano tempi, quei primi Anni Sessanta, in cui - anche per le celebrazioni dell’unità italiana - ci si scontrava apertamente. Sui libri e a sulle tesi storiche. Non sugli eventi o sugli appalti da mettere in cantiere.
gboatti@venus.it