Marco Imarisio, Corriere della Sera 14/05/2010, 14 maggio 2010
LA COMUNITA’ EBRAICA LICENZIA IL RABBINO CAPO
Anche le storie complicate si possono raccontare con un’immagine semplice. L’immagine è quella di Tullio Levi che alle nove di sera entra in sinagoga da una porticina laterale dopo aver attraversato a testa bassa l’omonima piazzetta dedicata a Primo, con una faccia sulla quale si leggono tutti questi anni di tensione sotterranea e nessuno dei sorrisi che si addicono ai vincitori. Tocca a lui, il presidente della comunità ebraica torinese, annunciare al Consiglio che è finita, il rabbino capo Alberto Somekh è stato infine rimosso.
«Almeno adesso è tutto più chiaro», dice. Ci sono strappi che durano anni, si protraggono nel tempo, ma quando ottengono i timbri dell’ ufficialità lasciano dietro di sé una sensazione di sconfitta generale. Non era mai successo, nella storia centenaria dell’ebraismo italiano, che un rabbino venisse cacciato. E a memoria di Levi anche in Europa dovrebbe essere la prima volta. La decisione è stata comunicata ieri da Roma, dove l’Unione delle Comunità ebraiche italiane aveva istituito una commissione fatta apposta per dirimere la disputa. Ha ragione il Consiglio di Torino che ne aveva chiesto la revoca dall’incarico, è stato il verdetto definitivo, il rabbino se ne deve andare.
Ci sono voluti anni per arrivare a una decisione definitiva, perché dietro alla «incompatibilità ambientale» di Somekh, così l’aveva definita il Consiglio, si agita una questione che ormai percorre come un fiume carsico l’ebraismo italiano, quella di una ortodossia che fatica a confrontarsi con le esigenze di comunità sempre più piccole e al tempo stesso sempre più «miste» che chiedono ai loro maestri atteggiamenti più inclusivi. Levi rivendica l’ortodossia degli ebrei di Torino, ma al tempo stesso racconta di un contrasto che trova le sue radici proprio nell’incapacità presunta del rabbino di leggere i tempi che cambiano. «Noi siamo ortodossi’ dice ”, e ci teniamo a ribadirlo. Piuttosto, Somekh ha enormi difficoltà a rapportarsi con la complessità di una comunità come la nostra. Non è questione di rigidità o di troppa ortodossia. Ma un rabbino deve tenere presenti le multiformi realtà nella quale vive e lavora. Deve avvicinare, e non allontanare dalla sinagoga. Negli ultimi anni, ha dimostrato invece di essere insensibile nei confronti dei sentimenti e dei problemi dei nostri giovani».
Nel gennaio del 2007 Levi si era dimesso, e con lui il Consiglio, per protesta contro l’operato del rabbino. Il suo estremo rigore era individuato come causa del disamore di molti ebrei torinesi, cresciuti in una comunità tradizionalmente laica. Somekh, nato a Milano nel 1961, padre iracheno e madre polacca, dottore in studi talmudici alla Yeshiva University di New York, era arrivato a Torino nel 1992 e subito aveva introdotto tesi che scartavano con la tradizione locale, come il dissenso su una Scuola ebraica aperta a tutti. I suoi rifiuti a celebrare Bar Mitzvah – la cerimonia che segna l’ingresso nella vita adulta’ di famiglie non completamente osservanti, erano diventati una consuetudine. Ne aveva fatto le spese anche il nipote di Primo Levi, e basta il nome.
L’atteggiamento del rabbino verso le famiglie miste, quelle in cui la madre non è di religione ebraica, è sempre stato di totale chiusura. I riti del sabato intanto andavano deserti, destando la preoccupazione della Consulta rabbinica italiana. Solo una settantina di fedeli in sinagoga, su 870 iscritti alla comunità, la terza più grande d’Italia dopo Roma e Milano. «In questi anni – è l’accusa di Tullio Levi’ i comportamenti contraddittori del rabbino hanno alimentato drammi individuali e familiari. Ma la tendenza in atto proprio nell’ebraismo ortodosso non è volta all’emarginazione delle famiglie miste, bensì al loro recupero». Era il 23 marzo del 2009 quando il Consiglio della Comunità ebraica di Torino ha votato la revoca del mandato di rabbino capo a Somekh. Dopo dimissioni date e ritirate, lettere e petizioni, ricorsi e cause, il conflitto è andato avanti fino a ieri.
«Una questione profonda e delicata» dice Claudia De Benedetti, torinese, vicepresidente dell’Unione Comunità Ebraiche Italiane. Non aggiunge altro, perché sa bene che quel che è successo non è una bega locale. Non riguarda solo la sua città ma l’intero ebraismo italiano, alle prese da tempo con una emorragia di aderenti che gli studiosi attribuiscono alla laicizzazione della società, alla difficoltà di educare i figli nel rispetto di regole antiche e complesse. E’ successo qui, una lacerazione che conduce a una prima volta assoluta. «Ne avremmo fatto volentieri a meno, di questo record» è il congedo amaro di Tullio Levi. E sulla sua faccia non si legge alcun sollievo per l’allontanamento di un «nemico». Ma solo tanta preoccupazione per un cambio di stagione che si annuncia comunque incerto.
Marco Imarisio