Piergiorhio Odifreddi, L’espresso, 20/5/2010, 20 maggio 2010
BIG BANG HAWKING
Una ventina d’anni, fa il premio Nobel per la fisica Steven Weinberg si trovò, in aereo, seduto vicino a uno sconosciuto, che stava leggendo un libro. Gli domandò cosa ne pensasse, e la risposta fu: "Oh, è meraviglioso: si capisce tutto". Al che il famoso fisico commentò: "Lei dice? Io già a pagina tre non ci capivo più niente". Naturalmente esagerava, ma voleva sottolineare la sorpresa per il successo di quel libro, che con i suoi 30 milioni di copie vendute in tutto il mondo era diventato il maggior bestseller scientifico della storia. E, prima dell’avvento di Dan Brown, il libro più venduto del secolo.
Si trattava di "Dal Big Bang ai buchi neri" di Stephen Hawking (Rizzoli, 1988), e la sua popolarità era dovuta in parte all’argomento del titolo: fino ad allora, infatti, di Big Bang e di buchi neri, della creazione dell’universo non nel senso mitico, ma con l’ausilio di teorie scientifiche, si era parlato poco, anche se da allora se ne sarebbe parlato tantissimo.
Il libro cercava di spiegare non solo le origini del cosmo ma anche cosa sia il tempo. Il principale motivo del successo di quel libro non era solo l’aver affrontato una questione difficile come quella, né l’innata curiosità per la cosmogonia, ma era dovuto pure alla persona dell’autore. E al suo corpo: un fisico affetto da sclerosi amiotropica multilaterale. Questa rara malattia è causata dalla degenerazione progressiva dei neuroni motori, che controllano il movimento volontario dei muscoli, e in genere porta alla morte in pochi anni: quando gliela diagnosticarono, nel 1963, Hawking aveva ventun anni, e i medici gli dissero che sarebbe morto entro due o tre. Ma il suo caso dimostra che una piccola percentuale dei malati può sopravvivere a lungo, e il decorso di Hawking è uno dei più lunghi e studiati. Già durante la stesura del suo libro, nel 1985, lo scienziato aveva subito una tracheotomia e perso la possibilità di parlare. Ma non di comunicare, grazie a un sofisticato marchingegno dotato di un sintetizzatore computerizzato, che da allora gli permette di scrivere e articolare suoni artificiali, oltre che di continuare ad apparire in pubblico. Io sono uno scienziato e non credo ovviamente alle favole per cui il potere della mente possa trascendere le leggi della fisica. Ma nella lotta di Hawking contro i limiti impostigli dalla malattia, dalla natura, verrebbe da dire c’è qualcosa di simbolico: un uomo che con la forza del suo cervello esplora l’universo e sfida il destino che lo ha racchiuso in un corpo immobile.
Pochi giorni fa ho avuto la fortuna di incontrare Hawking a Londra, in occasione della presentazione del programma televisivo di Discovery Channel "Nell’universo con Stephen Hawking": una serata memorabile, che ha coniugato la mondanità della prima di un film alla maestosa solennità di un’udienza pontificia. Palpabile era il rispetto dovuto a uno scienziato del suo rango. L’evento si è svolto nella sede della Royal Society, la più prestigiosa accademia scientifica inglese. Dalle pareti, una serie interminabile di ritratti testimoniavano il sommo livello dei suoi membri: Isaac Newton, Michael Faraday, Charles Darwin, Ernst Rutherford, Francis Crick...
E, naturalmente, Stephen Hawking. Ora, due parole sullo scienziato. Hawking è sicuramente un ottimo fisico, come dimostra appunto il fatto che sia diventato Fellow della Royal Society. Ma non è "l’erede di Galileo, Newton e Einstein", come proclamano le quarte di copertina dei suoi libri. E neanche "il più grande fisico di tutti i tempi", come sta scritto nel retro di "L’universo in un guscio di noce" (Mondadori, 2002). In ogni caso è stato Hawking a cercare di dimostrare per primo, ed era giovanissimo, che le equazioni matematiche che rappresentano l’espansione dell’universo richiedono necessariamente un inizio in forma di punto.
Per essere più precisi: Hawking è l’autore, nel 1970, insieme a Roger Penrose, di un teorema dal quale si deduce che nella Teoria della Relatività Generale di Einstein devono necessariamente esistere delle "singolarità" (così le chiama lui). Sono quelle, che si possono pensare come punti in cui le leggi della Teoria cessano di avere validità. In una direzione, questo dimostra che deve necessariamente esserci stato il Big Bang. Nell’altra direzione, che devono necessariamente esistere dei buchi neri. Hawking ha spiegato che il suo risultato non dimostra che le cose stiano veramente così nell’universo reale, ma che questo è ciò che prevede la Teoria della Relatività nella sua forma attuale. Hawking ha poi rivisto il suo teorema: o meglio la teoria di tutto. Secondo questa rivisitazione: una forma futura della Teoria della Relatività, che inglobi la meccanica quantistica, potrebbe aggirare l’esistenza delle singolarità, in vari modi. E per chiudere questa parentesi scientifica: riguardo ai buchi neri, Hawking ha studiato l’informazione che essi possono emettere, e ha dimostrato un teorema dal quale discende che almeno una delle Teorie della Relatività e della Meccanica Quantistica va cambiata - anche se non si sa ancora quale.
Vista la popolarità ma anche il valore di Hawking, Discovery Channel fa molto bene a usarlo per una serie di tre trasmissioni televisive di divulgazione scientifica sull’universo. Si tratta di una produzione che ha richiesto tre anni di lavoro, è costata molti milioni di euro, e affronta tre dei cavalli di battaglia del celebre fisico: gli alieni, il viaggio nel tempo e la storia dell’universo. Sono i temi che compaiono in tutti i suoi lavori, e costituiscono variazioni del suo primo successo, che nell’originale inglese si intitolava appunto "Una breve storia del tempo". Proprio durante la stesura di questo libro Hawking perse l’uso della parola e la mobilità. Oggi è ancorato alla sua tecnologica sedia a rotelle, provvista di uno schermo di computer al quale impartisce comandi con millimetrici spostamenti delle guance e degli occhi. Fa impressione guardarlo, suscita simpatia vederlo. Lo sguardo è mobile e vivace, e un dolce sorriso a volte rischiara il volto. Il resto del suo corpo è immobile. Il suo cervello è vivo e attivo. Hawking può rispondere alle domande, benché con un ritardo di lunghi e silenziosi minuti.
chiaro che in queste condizioni Hawking può pensare, ma la sua capacità di lavoro è limitata. O se vogliamo, Hawking continua a essere un grande divulgatore della scienza, cosa che in tutto il modo, ma in particolare in Italia paese degli umanisti non può che far bene.
Negli ultimi anni sono pure apparsi un paio di testi per ragazzi, "La Chiave Segreta per l’Universo", "Caccia al tesoro nell’Universo" scritti insieme alla figlia Lucy, in cui spiega agli adolescenti con leggerezza come è fatta l’astrofisica. Hawking infatti è un tipo curioso e disposto a giocare, per quanto le sue condizioni glielo permettono. Nel 1993 è diventato ologramma di se stesso in una puntata di "Star Trek". Poi un personaggio dei "Simpsons". Nel 2007 è stato il primo tetraplegico a sperimentare gli effetti della mancanza di gravità volando su un "Vomit Comet" privato. E nello stesso anno ha condotto fuori schermo la serie "Maestri della fantascienza" per la Abc.
Hawking, e anche questo va a suo merito, è disponibile a usare il proprio nome per promuovere le iniziative tv e cinematografiche più disparate e riguardanti la sua materia: il rapporto tra spazio e tempo, le questioni di fisica quantistica e la teoria della relatività. Già nel 1991 è uscito il documentario sulla sua vita "Una breve storia del tempo". Nel 1997, le sei puntate di "L’universo di Stephen Hawking" per la Pbs. Nel 2004, la biografia drammatizzata di Hawking per la Bbc. Nel 2008, le due puntate di "Stephen Hawking, Maestro dell’universo" per Channel 4. E ora, infine, "Nell’universo con Stephen Hawking". Alla serata di presentazione di quest’ultima, il produttore esecutivo John Smithson ha ricordato che, quando andò a spiegare l’idea della trasmissione allo scienziato, la risposta richiese molti minuti di elaborazione. Finalmente, la voce del computer dichiarò: "Mi piace, a patto che non mi facciate la faccia gialla come nei Simpsons". Anche quella sera la replica di Hawking tardò ad arrivare, nel religioso silenzio del pubblico, e fu: "Ho parlato spesso della vita degli alieni, ma è la prima volta che vedo cosa volevo dire".
La prima puntata della trasmissione è dedicata agli alieni. dunque più di fantascienza che di scienza, così come anche la seconda, dedicata al viaggio nel tempo. In entrambi i casi, la realizzazione grafica computerizzata è elaborata e attraente. Quanto alla fantasia, quella di Hawking è ispirata a film un po’ démodé, come "E.T. l’extraterrestre" e "Star Trek". Naturalmente, da uno scienziato ci si sarebbe potuto aspettare di più dell’affermazione che gli alieni dovrebbero avere due gambe, degli occhi e una bocca. E che sono da evitare, perché un incontro ravvicinato del terzo tipo produrrebbe gli stessi effetti della scoperta dell’America da parte di Colombo, con noi nella parte dei nativi americani. Così come ci si sarebbe potuto aspettare qualcosa di più sui viaggi interstellari, oltre alle astronavi a propulsione nucleare, in partenza per la colonizzazione dell’intera galassia: un’idea, questa, portata a conseguenze estreme da Frank Tipler nella "Fisica dell’immortalità".
Ma va bene così, la visione è piacevole e contribuisce a rendere familiari nozioni scientifiche non facili. E poi nel terzo episodio, dedicato alla vita e morte dell’universo, il rumoroso rock della fantascienza cede il passo alla bella musica da camera della scienza, per narrare la storia del Big Bang e dei buchi neri. Hawking realizza così uno splendido ritorno a un passato in cui non era ancora diventato l’icona della fisica moderna, e dà il meglio di sé in quanto non solo ottimo scienziato ma anche come un astrofisico in grado di essere popolare. Credetemi: non è facile.