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 2010  maggio 20 Giovedì calendario

L’EURO ANCORA SOTTO TIRO - COLLOQUIO CON NORIEL ROUBINI


Negli ultimi mesi l’Unione europea è rimasta a guardare e tutti i suoi leader non hanno potuto prendere decisioni insieme. Adesso che siamo arrivati sull’orlo del burrone, presidenti e primi ministri hanno capito che devono mettere le loro risorse insieme e muoversi all’unisono, altrimenti il rischio è il collasso dell’unione monetaria e dell’euro... Nouriel Roubini, l’economista che è stato tra i pochi a prevedere con largo anticipo la crisi e la recessione che hanno colpito il mondo nel 2008, giudica tardiva la scelta fatta in Europa domenica 9 maggio per evitare il collasso di Grecia, Portogallo e Spagna. E mette in guardia chi ritiene che la decisione di creare un fondo da 750 miliardi di euro e di consentire alla Banca centrale europea di acquistare i titoli del debito pubblico dei paesi a rischio per frenare l’attacco speculativo al ribasso sia da sola la soluzione del problema: "I soldi sono adesso disponibili, ma tutto è condizionato dagli interventi fiscali e dalle riforme strutturali da fare".
Quando nel 2006 Noriel Roubini, oggi professore di business alla Stern School della New York University, lanciò il primo grido d’allarme durante una conferenza del Fondo monetario internazionale, il moderatore sottolineò la conclusione dell’intervento con queste parole: "Adesso abbiamo tutti bisogno di bere qualcosa di forte". E quando la crisi arrivò esattamente come era stata prevista, Roubini fu ribattezzato Doctor Doom, il Dottor Disastro. Oggi Roubini, che ha lavorato al Fondo monetario, alla Banca mondiale ed è stato tra i consiglieri economici di Bill Clinton, dice che preferirebbe essere considerato Doctor Realistic, il Dottor Realtà.
La sua analisi resta però fondamentalmente pessimista, tanto che il libro appena pubblicato in Italia da Feltrinelli ha come titolo "La crisi non è finita" (è scritto insieme a Stephen Mihm). Di quello che è accaduto, delle soluzioni scelte, di quanto queste potranno funzionare e del futuro prossimo venturo Nouriel Roubini, 51 anni, nato in Turchia, scuole e università in Italia, studi specialistici in America, ha parlato con "L’espresso" nell’ufficio della Roubini Global Economics, la società di studi e consulenza che ha sede in un palazzo del West Village di New York che si affaccia sul fiume Hudson.
Professor Roubini, quello che è avvenuto a Wall Street e in tutte le Borse europee ed asiatiche il 6 maggio scorso indica che la crisi non è ancora alle spalle. Lei come spiega l’accaduto?
"Anche se ci possono essere stati dei fattori tecnici che hanno amplificato l’improvviso e forte ribasso delle quotazioni, resta fondamentale il fatto che c’è preoccupazione in tutti i mercati per l’esistenza di molteplici fattori di rischio. C’è preoccupazione per la crescita dei debiti sovrani in Europa, per il possibile rallentamento dell’economia in Cina, per le vendite al dettaglio negli Stati Uniti, per la crisi di liquidità in alcune banche dell’Europa".
Gli avvenimenti europei, a cominciare dalla crisi della Grecia, possono ancora essere un fattore di instabilità?
"La situazione in Europa è seria e difficile e adesso vedremo come e quanto le decisioni prese il 9 maggio funzioneranno. Ma deve essere a tutti chiaro che la Grecia non ha un problema di liquidità ma di solvibilità. Anche se il governo di Atene farà tutti gli aggiustamenti fiscali necessari - e sono davvero enormi - la produzione diminuirà per i prossimi due o tre anni e il debito è destinato a salire. impensabile risolvere i problemi della Grecia solo con una serie di finanziamenti e senza ristrutturare il debito del Paese. E i mercati sanno che sulla strada della Grecia ci sono altri paesi".
Si riferisce a Portogallo, Spagna, Irlanda?
"Anche a loro. Sono nazioni, come molte di quelle che appartengono alla periferia di Eurolandia, che quanto a deficit, a rapporto tra debito pubblico e prodotto nazionale lordo, a mancanza di riforme di struttura e a perdita di competitività sono in testa alla lista. Tutti questi paesi hanno anche perduto quote di mercato rispetto alla Cina e ad altri paesi dell’Asia da almeno un decennio. E in questo periodo, proprio in quest’area, la produttività è cresciuta meno dei salari, i costi per unità di prodotto sono saliti, e l’ultimo chiodo sulla bara è stato la rivalutazione dell’euro tra il 2002 e il 2008".
Mette l’Italia insieme agli altri paesi? E come la giudica?
"La mia preoccupazione più grande per l’Italia riguarda l’autocompiacimento della politica che spinge a sottovalutare i pericoli. Per il resto è vero che l’Italia ha un debito pubblico molto alto, ma il deficit non è cresciuto quando è arrivata la crisi. I governi, non solo quello in carica, hanno varato alcune riforme come quella del sistema delle pensioni, e la Banca d’Italia sotto la guida di Mario Draghi ha fatto un’ottima supervisione del sistema bancario evitando che gli istituti di credito arrivassero sull’orlo del fallimento come negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Irlanda o si riempissero di titoli tossici e senza valore. Tutto questo deve però confrontarsi con gli stessi problemi che hanno i paesi della periferia di Eurolandia. Come Grecia e Portogallo, l’Italia ha perso competitività, la crescita è assai debole e troppo vicina allo zero, il reddito pro capite è diminuito e l’attuale governo ha molto parlato di riforme strutturali ma ha fatto molto poco in questa direzione".
Lei ha più volte invitato la Banca centrale europea ad abbassare il tasso di interesse che oggi è all’1 per cento. Perché tanta insistenza?
"La Federal Reserve, la Banca centrale del Giappone e la Banca d’Inghilterra hanno portato il tasso a zero, anche nel mezzo della recessione la Bce è rimasta all’1 per cento. Dunque, lo spazio per scendere c’è e vale un punto. In secondo luogo, la Bce ha acquistato l’anno scorso 60 miliardi di euro di titoli come manovra di intervento sulla liquidità mentre la Federal Reserve ne ha comperati per 1.800 miliardi di dollari. Questo vuol dire che la Banca centrale europea ha ancora larghi spazi di manovra per aiutare la ripresa in Europa".
Per due giorni i leader dell’Unione europea hanno discusso che cosa fare. I 100 miliardi di euro che si pensava di stanziare a favore della Grecia sono diventati 750 per aiutare tutti i paesi che ne hanno bisogno. stata una scelta saggia? E funzionerà?
"I soldi sono finalmente sul tavolo, ma se non ci saranno interventi fiscali e riforme strutturali i problemi non saranno risolti. Nel breve periodo, poi, il taglio della spesa e l’incremento delle tasse aumenteranno la congiuntura negativa e la pressione deflazionistica nell’eurozona".
L’euro ha ancora un futuro in una situazione di crisi come quella attuale e di forti disparità tra le economie dell’eurozona?
"Oggi c’è il rischio di una rottura dell’unione monetaria e la ragione è dovuta a un errore commesso nel passato: sono stati fatti entrare nell’euro paesi come il Portogallo e la Grecia che non erano pronti dal punto di vista della solidità dei loro sistemi. Attenzione, c’era una logica nel ricercare l’unione monetaria, ma questa aveva bisogno che i paesi membri non avessero politiche monetarie e fiscali troppo autonome. Ed è accaduto che la Germania è andata in una direzione, mentre altre nazioni sono andate in un’altra. Del resto è abbastanza raro che ci sia una unione monetaria di successo senza avere allo stesso tempo una unione politica. L’Italia, ricordiamolo, ha vissuto nel Diciannovesimo secolo prima la sua riunificazione politica e successivamente quella monetaria".
L’amministrazione Obama sta provando - e per ora non ci riesce - a varare una riforma del sistema finanziario. Altri paesi hanno fatto poco o niente. Perché non è facile introdurre regole più serie, vuol dire che la speculazione è più forte dei governi?
"Non si poteva fare negli anni del boom finanziario. Oggi si è perso il momento migliore per intervenire che era nel pieno della crisi. E adesso che grazie ai soldi pubblici di salvataggio le banche e la finanza hanno ripreso a guadagnare cresce l’opposizione a strette regolamentazioni. Ma il bisogno di fare qualcosa resta: quei titoli che vanno sotto il nome di Collateralized Debt Obligation e che sono stati ribattezzati Chernobyl Death Obligation devono essere duramente regolamentati se non banditi".
C’era l’idea che l’economia americana sarebbe stata la locomotiva della ripresa per tutti. E invece non è accaduto...
"Negli Usa la ripresa è ancora troppo anemica".
Che cosa prevede per i prossimi due o tre anni?
"La crescita è modesta, anche negli Stati Uniti è potenzialmente del 3 per cento mentre servirebbe un 5-6 per cento per far aumentare l’occupazione. Non mi aspetto un’altra recessione globale, ma avremo un trend di ripresa lento e sotto le aspettative. Il fenomeno sarà pressoché eguale in tutte le economie avanzate, mentre i paesi emergenti sono in condizioni decisamente migliori".
Parla di Cina e Brasile?
"Parlo di questi due Paesi ma anche dell’India e dell’Indonesia, mentre sono meno ottimista per la Russia la cui crescita si fonda quasi esclusivamente sull’energia e ha problemi seri di corruzione e di riforme da fare. Gli emergenti hanno tutti una potenziale crescita tra il 5 e l’8 per cento".