ALBERTO CUSTODERO, la Repubblica 14/5/2010, 14 maggio 2010
QUELLE LETTERE RITROVATE DI DUE GRANDI MAESTRI
Quando Vittorio Alfieri muore, ai primi dell´Ottocento, il giovanissimo Manzoni è ancora affascinato dalla figura del poeta astigiano. Di questi due grandi della letteratura italiana riemergono ora dal passato due importanti testimonianze manoscritte della loro poetica. Due documenti originali che aiutano a capire come scrivevano e quale evoluzione seguisse l´elaborazione delle loro opere fino al compimento finale.
Il primo è la risposta di Vittorio Alfieri a Ranieri de´ Calzabigi sopra le "Sue prime quattro tragedie", Antigone, Virginia, Filippo e Polinice, nella quale il poeta astigiano scrisse «Volli, sempre volli, fortissimamente volli», il manifesto della sua opera. La prima stesura di quella lettera di inestimabile valore storico apparentemente nata come mero scambio epistolare fra il letterato piemontese e il critico livornese - divenuta testo letterario di riferimento per tutti gli studiosi alfieriani - esce dall´archivio privato del collezionista romano Raffaele Garofalo. E diventa oggi finalmente pubblica nel libro Alfieri e Calzabigi (con uno scritto inedito di Giuseppe Pelli), a cura di Angelo Fabrizi, Laura Ghidetti e Francesca Mecatti. Nella seconda di quelle quindici carte manoscritte, alla quattordicesima riga compare la frase simbolo della poetica e della biografia alfieriana. Con quel «Volli, sempre volli, fortissimamente volli» il poeta astigiano concilia la sua furibonda volontà di conoscenza con l´inevitabile ricorso alla ferrea disciplina dello studio.
Per 220 anni quelle carte sono state conservate a Torino, nell´Archivio del conte Cibrario, fino a quando i suoi eredi non le hanno messe all´asta. A batterle, nel novembre 2002, a Roma, la casa londinese Christie´s. Fu battaglia per appropriarsi del prezioso cimelio fra due collezionisti privati: da una parte Garofalo e, dall´altra, la biblioteca pubblica Medicea Laurenziana di Firenze. La spuntò con un´offerta superiore ai 50 mila euro il chirurgo-collezionista Garofalo (morto nel febbraio 2006), che trasferì la lettera di Alfieri da quello torinese dei Cibrario al suo archivio privato, a Roma, in via di Affogalasino numero 13.
Il secondo documento che torna dal passato dopo 108 anni, è l´originale di un´importante lettera del Manzoni, firmata "A. M.", che si pensava smarrita. L´autore dei Promessi Sposi la scrisse alla sua fedele collaboratrice fiorentina, Emilia Luti, per farsi consigliare l´uso di una parola che aveva intenzione di inserire in uno dei capitoli fondamentali del romanzo, l´ottavo "la notte degli imbrogli e dei sotterfugi" (Renzo e Lucia irrompono nella stanza di don Abbondio per tentare - invano - di sposarsi). La lettera si trova a Firenze presso la Società Dantesca Italiana, ed è tornata alla luce durante i recenti lavori di riordino dell´archivio del famoso studioso di Dante, Giuseppe Vandelli. Nello scritto, Manzoni - in piena "risciacquatura di panni in Arno" - chiedeva alla consulente fiorentina se andasse bene la parola (dell´uso italiano, ma non specificamente fiorentina), "raccattare". Voleva sostituire "adunghiare" usata nell´edizione del 1827 per esprimere l´azione di Tonio il quale, quando don Abbondio spense il lume per impedire le nozze improvvise di Renzo e Lucia che avevano fatto irruzione nella sua stanza, cercò a terra a tentoni la ricevuta nel frattempo cadutagli dalle mani.
«Il ritrovamento di questa lettera - spiega il docente di Letteratura italiana della facoltà di Lettere di Firenze Enrico Ghidetti, presidente della Società Dantesca Italiana - offre oggi una autorevole prova che non sempre la risciacquatura produsse effetti felici. L´ossessione lessicale a volte indusse Manzoni a correzioni non particolarmente convincenti. Nell´ultima edizione del ´40, infatti, non usò la parola in italiano più corretta "raccattare" (la cui volontà è comprovata nella lettera ritrovata), ma quell´ossessione lo spinse a usare la parola "raccapezzare", di sicuro uso fiorentino, ma non perfettamente calzante all´azione di raccogliere qualcosa da terra. Ed è questo uno dei casi di fiorentinismo non particolarmente convincente del Manzoni».