Giovanni De Luna, La Stampa 13/5/2010, pagina 38, 13 maggio 2010
LA MEMORIA USA E GETTA
Negli ultimi dieci anni sull’Italia si è abbattuta una valanga di leggi memoriali. Proviamo a contarle tutte. La legge 20 luglio 2000 dichiara il 27 gennaio «giorno della memoria» della Shoah e della deportazione «dei militari e politici italiani» nei campi nazisti; la legge 30 marzo 2004 indica nel 10 febbraio il «giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe; la legge 15 aprile 2005 istituisce il «giorno della libertà», quello dell’abbattimento del muro di Berlino (il 9 novembre); la legge 4 maggio 2007 sceglie il 9 maggio come «giorno della memoria» dedicato alle vittime del terrorismo; la legge 12 novembre 2009 proclama il 12 novembre «giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace».
Sempre in questo decennio: nel 2000 è stato ripristinata la celebrazione della Festa nazionale della Repubblica nella data del 2 giugno; nel 2002 è stata istituita la giornata «della memoria dei marinai scomparsi in mare» (la ricorrenza si commemora annualmente il 12 novembre); nel 2005 la giornata del 4 ottobre, «già solennità civile in onore dei Patroni speciali d’Italia San Francesco d’Assisi e Santa Caterina da Siena», viene dichiarata anche «giornata della pace, della fraternità e del dialogo tra appartenenti a culture e religioni diverse»; ancora nel 2005, il 2 ottobre diventa giorno della Festa dei nonni, «per celebrare l’importanza del ruolo svolto dai nonni all’interno delle famiglie e della società in generale».
Sono attualmente in itinere i progetti di legge relativi a giornate della memoria dedicate «alle vittime dell’odio politico», «alle vittime della mafia», «alle vittime della criminalità», «alle vittime del comunismo», «alle vittime cadute nei gulag sovietici», «alle vittime di tragedie causate dall’incuria dell’uomo e delle calamità naturali», alle «vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall’incuria dell’uomo», alle «vittime del dovere», alle «vittime del lavoro», «agli emigrati italiani deceduti sul lavoro all’estero», «ai martiri per la libertà religiosa».
Viene fuori da questo elenco una memoria bulimica, straripante, che rischia di favorire più l’oblio che il ricordo. evidente che lo Stato e le istituzioni della nostra Repubblica stanno tentando di delineare uno spazio pubblico in grado di suggerire una memoria comune a cui legare oggi la nostra identità nazionale. Da Pertini a Napolitano, passando attraverso Ciampi, è stata soprattutto la Presidenza della Repubblica a spendersi in questo sforzo generoso. Con scarsi risultati, e con un affanno reso esplicito dalla quantità stessa di quelle leggi.
La memoria collettiva è il frutto non di un ricordo, ma di un patto per cui ci si accorda su cosa è importante trasmettere alle generazioni successive. Lo Stato rende «ufficiali» i termini di questo patto attraverso le sue istituzioni (la scuola soprattutto), i suoi luoghi, i suoi simboli. Quanto più sono virtuose le istituzioni, tanto più saldi sono i confini di quel patto. Quanto più è forte un comune sentimento di appartenenza tra le varie forze politiche, tanto più efficace è il ruolo giocato dalla religione civile che dal patto scaturisce.
Niente di tutto questo sembra affiorare nel caso italiano. Le discussioni parlamentari che scandiscono l’iter delle varie leggi mostrano un uso della storia strumentale, piegato alle esigenze della propaganda politica immediata, una visione del passato «usa e getta» tutta appiattita sugli scopi del presente. Così, per la giornata in ricordo delle vittime della Shoah, scegliere il 27 gennaio (data di apertura dei cancelli di Auschwitz) e non il 16 ottobre (data della più grande razzia di ebrei italiani dal ghetto di Roma) significa, ad esempio, evitare di mettere l’accento sulle dimensioni italiane dello sterminio e sulle complicità della Repubblica di Salò. La scelta del 9 maggio (assassinio di Aldo Moro) e non del 12 dicembre (strage di Stato di piazza Fontana), privilegia di fatto la stagione del terrorismo rosso mettendo in secondo piano lo stragismo e le bombe fasciste. E il 10 febbraio corrisponde alla scelta dell’anniversario del trattato di Parigi che con la tragedia delle foibe (svoltasi in due riprese, dopo l’8 settembre 1943 e nel maggio 1945) c’entra molto poco, così da sembrare una sorta di controaltare al 27 gennaio. Colpisce poi negli interventi parlamentari il riferirsi alla ricerca storica ignorandola del tutto o appiattendola su una letteratura affollata di faziosità e semplificazioni.
Non è di questa memoria che c’è bisogno. C’è piuttosto una necessità disperata di conoscenza storica. Invocare più storia e meno memoria vuol dire essenzialmente scegliersi un nemico da combattere, identificandolo in un senso comune avvelenato dagli stereotipi e dai pregiudizi; significa sforzarsi di prendere le distanze da quel groviglio politico e identitario che segna l’intreccio tra storia e memoria, affrancare la storia dalla strumentalità di chi si riferisce al passato come a una sorta di supermarket in cui si compra solo e sempre quello che si vuole. Ripristinare le ragioni della conoscenza storica vuol dire sottolineare (lo diceva Bobbio) come oggi storia significhi «misura, ponderatezza, circospezione; valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva».