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 2010  maggio 12 Mercoledì calendario

SUICIDI, SUPER-AFFOLLAMENTO, STRANIERI E NIENTE NUOVE CELLE: IL SISTEMA AL COLLASSO

Vasiline aveva 37 anni, era bulgaro. Dall’inizio di marzo era a San Vittore in attesa di essere estradato in Spagna, l’altro giorno ha detto ai compagni di cella che non sarebbe sceso in cortile per l’ora d’aria: «Non sto tanto bene, non me la sento». Quando è rimasto solo ha strappato un lembo di lenzuolo e si è impiccato in bagno. E’ il venticinquesimo detenuto (su 67 mila) che si ammazza dall’inizio dell’anno, nel 2009 furono 73 a scegliere la stessa ”via di fuga”. E se a qualcuno sembra un numero accettabile o fisiologico provi a pensare che se nella società degli uomini liberi i suicidi avessero la stessa frequenza, dall’inizio dell’anno già 21 mila persone si sarebbero tolte la vita in Italia: e parlerebbero tutti - giustamente - di una strage da evitare in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo. Ma visto che si tratta di detenuti, la strage può continuare.
L’ultimo censimento di quella che viene definita ”popolazione carceraria” risale alla fine di aprile: erano più di 67 mila, quando invece i penitenziari ne potrebbero ospitare poco più di 43 mila. Con casi limite come quello della Casa Circondariale di Padova (90 posti, 252 reclusi) o di Forlì (115 posti e 273 detenuti). Un dato che da solo spiega come si vive oggi fra le mura di una galera. Ci sono celle a San Vittore - ma anche nelle altre grandi carceri d’Italia come l’Ucciardone a Palermo, o Poggioreale a Napoli - dove in meno di dieci metri quadri ci stanno sei detenuti ”chiusi” 21 ore al giorno, con un’unica possibilità: stare sdraiati in branda e alzarsi a turno anche soltanto per andare in bagno.
La Costituzione non lascia dubbi circa il trattamento da riservare ai detenuti: dice che il carcere deve servire esclusivamente alla ”rieducazione”. Ma quale rieducazione può esserci per un condannato costretto a passare giorni, mesi, anni sdraiato su un letto a castello a tre piani in una stanza insieme con altri cinque sconosciuti?
Quasi la metà dei detenuti (trentamila) è in attesa di giudizio. Non hanno ancora avuto una condanna definitiva, e per la legge italiana sono dunque ancora innocenti. Ma nelle carceri italiane, evidentemente, si tollera che degli innocenti rimangano blindati in una cella dove non ci si può nemmeno lavare. O dove la burocrazia frena anche i diritti più elementari, come quello di essere curati in visto che nelle infermerie mancano persino le aspirine. Tre giorni fa il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) ha diramato una circolare per far sapere che la telefonata a casa a cui alcuni detenuti hanno diritto (una ogni quindici giorni, e naturalmente ascoltata) può essere fatta anche verso un telefono cellulare. Sembra una banalità, ma fino a oggi uno che dal carcere chiamava il numero fisso di casa e non trovava nessuno doveva rinunciare anche a quel piccolo frammento di calore umano: il regolamento infatti non prevede che si possa chiamare la moglie, o il figlio, o il padre sul cellulare. Perché? Nessuno l’ ha mai saputo spiegare.
Nella circolare del Dap era anche scritto che i detenuti al loro arrivo devono essere informati sui loro diritti. Altra cosa ovvia, che ovvia invece non è. Soprattutto per gli stranieri che entrano in cella e non sanno neppure che (almeno in linea teorica) possono avere un colloquio la settimana con i parenti, o fare dei lavori retribuiti, o chiedere di essere curati se sono affetti da malattie più o meno gravi. Non è certo un problema che riguarda pochi: su 67 mila ospiti, gli stranieri sono 25 mila, più di uno su tre. In genere vengono messi in cella insieme, suddivisi per etnia e abbandonati a sé stessi, privati di assistenza, esclusi: il modo migliore per alimentare la formazione di bande che appena possono si scontrano fra loro e che accendono climi di tensione intollerabile anche per tutti gli altri. Non a caso a Fossano (Cuneo) dopo molti anni di apparente pacificazione si è sfiorata la rivolta nelle scorse settimane.
Qualcuno, ogni tanto, salta fuori con la proposta di rimandare ai loro Paesi tutti gli stranieri detenuti: «Così risolviamo il problema del sovraffollamento in un colpo solo». Col piccolo problema che però bisognerebbe mandare a casa anche quelli in attesa di giudizio (e quindi ”presunti innocenti”), o quelli col permesso di soggiorno (e che quindi hanno il pieno diritto di rimanere in Italia), o - tanto per fare un esempio - i 3255 detenuti romeni che essendo cittadini comunitari non possono essere rispediti proprio da nessuna parte.
Qualcuno altro dice che la soluzione sta nella costruzione di nuovi istituti penitenziari. Ma non ci sono soldi, nè progetti, e intanto i detenuti seguitano a crescere di numero anche grazie a leggi che hanno ridotto drasticamente la possibilità di accedere a misure alternative (arresti domiciliari, affidamento ai servizi sociali, inasprimento delle pene per i recidivi) senza tenere conto delle conseguenze che avrebbero avuto. Conseguenze che, come se non bastasse, gravano in modo pesante anche sugli agenti di custodia, altre vittime di una situazione al limite del collasso: non ci sono soldi neanche per loro, i sindacati della Polizia Penitenziaria hanno calcolato che all’organico minimo mancano seimila uomini, ci sono casi in cui un solo agente deve tenere sotto controllo reparti con cento detenuti. Ma la sicurezza, in carcere, non sembra essere una priorità.