RAFFAELLO MASCI, La Stampa 12/5/2010, pagina 11, 12 maggio 2010
IN ITALIA DILAGANO GLI SLANG GIOVANILI
All’inizio - ma parliamo dei tempi di Dante e Petrarca - anche l’Italiano era percepito come un dialetto: era il fiorentino, in sostanza. Ma oggi nessun linguista parlerebbe della nostra lingua in questi termini: è diventata idioma nazionale non solo perché è diffuso su tutto il territorio, ma anche perché ha ricevuto - specie dall’Unità in avanti - una quantità enorme di apporti da tutta la penisola (e dalle isole). Il travaso è stato costante: oggi utilizziamo come italiani termini che nascono dialettali: sfizioso, mariuolo, patacca, ma anche pizza ... e poi c’è la gamma infinita delle parolacce.
Secondo uno studio condotto da Tullio De Mauro cinque anni fa, nell’anno di costituzione del regno d’Italia (1861), solo il 2,5% della popolazione parlava esclusivamente italiano, il resto conosceva - altrettanto esclusivamente - il rispettivo dialetto. Questo rapporto nel 1951 era ribaltato in un 18,5% di esclusivamente italianofoni e un 63,5% di soli dialettofoni. Nel 1997 - ultimo anno studiato - il 6% degli italiani parlava soltanto in dialetto, ed era un insieme costituito da soli vecchi.
Tuttavia in questo paese linguisticamente unitario, permangono forti differenze: «Intanto - dice Paolo D’Achille, che insegna linguistica italiana nell’Università di Roma Tre ed è uno dei maggiori dialettologi - in Italia, oltre all’italiano, si parlano altre nove lingue, riconosciute e come tali tutelate dalla legge: il tedesco, il franco-provenzale, il catalano, il greco, l’albanese, il ladino, il croato, il sardo e il friulano. Poi ci sono i dialetti, che i linguisti classificano per grandi famiglie: i gallo-italici (piemontesi e lombardi soprattutto), i veneti variamente declinati, i toscani, i dialetti mediani che sono quelli degli antichi Stati pontifici (Lazio, Umbria e Marche), i dialetti meridionali e quelli meridionali estremi (il salentino, il calabrese, il siciliano).
Ma questa classificazione non rende giustizia alla quantità enorme di varianti tra un dialetto e altro. Per cui potremmo dire che c’è una variante dell’italiano per ogni cocuzzolo dell’Appennino e delle aree montane in generale. Un po’ più omogenea è, invece, la situazione nelle pianure.
In sintesi: se i comuni sono 8.500 i dialetti non sono tanti di meno. «Molti - dice ancora D’Achille - presentano differenze molto forti, anche se si trovano in aree contigue. Per esempio tra i dialetti sabini del Lazio e quelli abruzzesi c’è una differenza enorme, eppure si parlano su due pendici delle stesse montagne. Un fenomeno che si è prodotto anche per effetto di confini etnici che risalgono all’Italia preromana e che poi sono stati ribaditi da confini diocesani e di Stati».
Non tutti i dialetti, però, godono della medesima fortuna. «In due aree, cioè il Veneto e la Sicilia - dice D’Achille - hanno resistito meglio e oggi sono addirittura in ripresa, anche nei ceti colti. Un fenomeno complesso in cui hanno un ruolo anche fattori identitari e politici. In recessione, invece, i dialetti delle grandi città e di tutte quelle aree in cui il contatto con l’Italiano è più presente: Milano e Roma ne sono l’esempio tipico. Ma anche Napoli - dove il vernacolo fa colore e tradizione - batte in ritirata.
«A dilagare sono, semmai, gli slang giovanili - spiega D’Achille - che mescolano lingua e dialetto e seminano le stesse parole da nord e a sud: i romani ”baccagliare” e ”sgamare” - per esempio - si dicono anche a Milano e Torino, mentre il milanese ”squinzia” si usa perfino a Palermo. Per non dire di ”ricchione” che nasce a Napoli ma ha debordato fino a Bolzano e Pantelleria».
Dove i dialetti perdono terreno, però, a resistere sono gli accenti e le cadenze, per cui il più colto dei pugliesi e il più dotto dei torinesi potranno essere identificati ovunque. I romani, invece, non sono più immancabilmente traditi dalla R scempia quando dovrebbe essere doppia (buro, tera, guera) ma dal fatto che parlano con un’ottava più alta di tutti gli altri.