STEFANO LEPRI, La Stampa 12/5/2010, pagina 4, 12 maggio 2010
ORA LE SETTE CICALE TEMONO IL CRAC
Sarà ancora più lenta da noi in Italia quella ripresa economica «moderata e ineguale» che il Fmi prevede per l’Europa. O meglio prevedeva; perché il rapporto che il Fondo monetario internazionale ha reso noto ieri è stato scritto prima degli sconvolgimenti degli ultimi giorni. E se pure una catastrofe europea è stata scongiurata, i rimedi un costo lo avranno.
Il Fmi, così come la Banca centrale europea, insiste che il contributo principale al piano per il salvataggio dell’euro lo daranno le misure che i governi prenderanno: l’ha detto ieri il vicedirettore generale, l’americano John Lipsky. Non solo gli Stati in difficoltà, ma anche gli altri, dovranno adottare manovre di bilancio per ridurre i deficit; nel breve termine, la crescita ne soffrirà, pur se su questo ilFmi ancora non si pronuncia .
Già nel documento di ieri, le previsioni di crescita - invariate rispetto a quelle dello stesso Fmi 3 settimane fa - sono un po’ più basse di quelle di molti governi. L’Italia si colloca a mezza via tra i paesi in difficoltà (Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda) e tutti gli altri dell’Unione euroepa, nei quali la ripresa si annuncia un po’ meno fiacca. Però ha un deficit di bilancio meno elevato della media, dunque meno urgenza di misure aggiuntive.
Le tensioni che attraversano l’area euro sono serie. Il Fmi fa un’analisi che offre spunti a chi vede l’unione monetaria europea divisa fra «cicale» del Sud e «formiche» del Nord (fino all’assurda e impraticabile proposta di dividere l’euro in due). Un’istituzione come il Fondo monetario non si può permettere di parlare di cicale e formiche, ma il senso è quello.
Le cicale hanno ricevuto notevoli vantaggi dall’ingresso nell’euro, nel senso che hanno potuto permettersi di vivere al di sopra dei propri mezzi (importano più di quanto esportano). Ora si trovano in una situazione pericolosa. La cura consigliata dal Fondo monetario è severa: da subito, più tasse e meno spese; dopo, freno al costo del lavoro e liberalizzazioni.
Nell’analisi, i paesi meridionali dell’euro sono 7, Cipro, Grecia, Italia, Malta, Portogallo, Slovenia e Spagna: hanno in comune che i loro conti con l’estero sono andati sempre peggiorando. I paesi del Nord sono Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Lussemburgo, Olanda, e anche l’Irlanda nonostante tutti i suoi guai: i loro conti con l’estero da quando c’è l’euro sono andati in attivo.
Negli anni prima della crisi, l’euro era sembrato vantaggioso per alcuni dei paesi meridionali, che registravano alti tassi di crescita; a finanziarli era un afflusso di capitali dall’estero. Gli economisti del Fmi si domandano se si trattasse di un effetto che la globalizzazione avrebbe portato in ogni caso, o se c’entri proprio l’euro; e concludono per la seconda ipotesi.
I paesi-cicala, ricevuto questo beneficio, hanno cominciato a risparmiare di meno, perché riuscivano a finanziare all’estero gli investimenti. Le regole del Patto di stabilità avevano reso meno spendaccioni i loro Stati; lo squilibrio è sorto nel settore privato dell’economia.
Ora è arrivato l’inverno della crisi e le cicale piangono. L’Italia assai meno: tra tutti i paesi del gruppo meridionale, il nostro paese è quello meno in difficoltà, perché il suo disavanzo dei conti con l’estero, pur peggiorato, è ancora abbastanza modesto, tre per cento rispetto al prodotto lordo. Nei calcoli del Fondo monetario internazionale, potrebbe scomparire quasi del tutto se riuscissimo a portare la produttività del nostro lavoro ai livelli migliori dell’area euro, quelli dell’Olanda e della Finlandia. Chissà come si fa.