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 2010  maggio 11 Martedì calendario

MOGLIE MORTA, VOGLIO GIUSTIZIA

Non ci sarà mai nessuna fotografia del primo dentino o del primo giorno di scuola accanto alla mamma. L’unico modo con cui Peter potrà ricordarla è quello scatto all’ospedale di Bolzano mentre lei, davanti all’incubatrice, lo tiene in braccio e lo allatta attraverso un sondino collegato a una siringa sulla spalla sinistra. per portargli il latte che Michaela Zoschg, 34 anni, cameriera che studiava per diventare assistente sociale, un mese fa era sul treno maledetto della Val Venosta. La sua vita e quella di altri 8 passeggeri è finita alle 9.03 del 12 aprile scorso, spazzata via dal fango franato sui binari da un meleto a Laces, vicino a Merano.
Il figlio di Michaela era nato prematuro il 29 marzo e lei, dopo quattro giorni di ricovero, era tornata a casa, a Prato allo Stelvio, dal compagno Stecher Armin, 38 anni, professore di tedesco alla scuola professionale di agricoltura Furstenburg, a Burgusio. Ogni mattina Michaela si alzava all’alba, si attaccava il tiralatte al seno e preparava il biberon per Peter osservando la cameretta con la culla, il carillon e i disegni colorati sulla carta da parati. Poi, alle 8.30, saliva sul treno e partiva per Bolzano.
Spesso da sola, come il giorno dell’incidente, qualche volta con Stecher. «Ci eravamo andati insieme il giorno prima, l’11 aprile - ricorda il papà di Peter -. Era domenica, io non lavoravo e mi sono portato dietro la macchina fotografica digitale. Meno male, resterà almeno un’immagine di Peter con la sua mamma. La sera, a casa, avevamo guardato le foto sul computer e Michaela diceva che quella foto era bellissima: desiderava fosse la prima in un album tutto dedicato a nostro figlio».
La prima e l’ultima assieme a lei. Stecher parla un italiano molto chiaro, con un marcato accento tedesco. E se ogni tanto si interrompe, non è per la difficoltà della pronuncia. La sua voce è bruciata dall’emozione, dai ricordi di quella mattina che ha spezzato i suoi sogni di una famiglia assieme a Michaela e al loro primo figlio. Oggi Peter vive con il suo papà, la nonna e la zia paterna. «Mia madre è dolcissima e mia sorella ha dalla sua l’esperienza di due figli adolescenti - dice Stecher -, ma sappiamo bene che non è la stessa cosa. E poi, Michaela era una ragazza speciale: Non meritava una fine così improvvisa e crudele».
Il nastro della memoria si riavvolge all’indietro, alle 11 di quella drammatica mattina di un mese fa. «Era suonata da poco la campanella dell’intervallo, mi trovavo nella sala professori. Parlavano tutti della sciagura ferroviaria, allora io ho cominciato a preoccuparmi. Non c’erano notizie precise sull’orario, ma tutti dicevano che c’erano alcuni morti. Ho provato a telefonare sul cellulare di Michaela: squillava ma lei non rispondeva. Ho chiamato più volte. Niente. Allora ho parlato con il preside e sono scappato via da scuola».
La corsa folle in auto fino al meleto del disastro. «C’era un caos tremendo, carabinieri, pompieri, polizia, gente che piangeva...Non si capiva granché, anche perché io ero disperato. Poi però ho trovato un carabiniere gentile che mi ha aiutato a trovare qualche notizia. Il nome di Michaela non era sulla lista dei feriti, ma era ancora a disposizione quella dei morti. Intanto il tempo passava e io ero sempre lì a tormentarmi».
Continua il giro di telefonate agli ospedali di Merano, Bolzano, Silandro. In quest’ultimo Sacher si presenta di persona, sa che è qui che si trovano le salme. Non può ancora vederle, deve rimanere fuori dalla stanza in cui sono state deposte. Allora fa un ultimo tentativo. Chiama di nuovo sul cellulare di Michaela. «Non sentivo alcun trillo di telefonino, quindi ho sperato che lei non fosse al di là della porta. Purtroppo era solo un’illusione».
Passano pochi minuti e il professore viene invitato ad entrare nella sala e a verificare se tra quei corpi c’è quello del suo amore. «Non ho visto nessun altro. Solo Michaela. Era la prima a sinistra. Gli occhi ricoperti di fango. La bocca ricoperta di fango. C’era un odore di fango marcio. Mi sembrava di impazzire, non ci potevo credere. Sono uscito e entrato da quella stanza due tre volte. Ma la realtà non cambiava. Quella donna era la mia Michaela, la madre mio figlio. E io la vedevo per l’ultima volta».
Il dolore e l’angoscia riemergono con tutta la loro prepotenza, eppure Stecher trova la forza di proseguire il racconto. «Non potevo tacere ancora. Ho subito chiamato mia madre, la madre di Michaela, suo fratello e le sue zie. Aveva un rapporto speciale con le zie, le volevano bene come a una figlia. Al telefono gridavano tutti. E’ stato straziante». Dopo la consapevolezza, i giorni in cui il dolore si fa muto. «Ho vissuto come in trance, come in un sogno. Ancora oggi fatico ad accettare che sia stato il funerale di Michaela. Mi sembra tutto un sogno. Tutto un incubo. E oggi aspetto la verità, voglio sapere per colpa di chi mio figlio è orfano».
L’unica nota dolce della realtà è Peter. Peter che ha bisogno di essere nutrito, anche se non c’è più il latte della mamma. Peter che ha bisogno ancora delle cure dell’ospedale, anche se non più di quelle della Terapia intensiva neonatale di Bolzano. Un’ambulanza della Croce bianca lo trasferisce all’ospedale di Silandro. Vicino a casa. E qui ci resta ancora alcuni giorni, il tempo necessario per capire che è abbastanza forte per farcela senza l’aiuto dei medici e delle macchine.
«Sono andato a prenderlo solo l’altro ieri - dice Stecher - e mai smetterò di ringraziare tutte le persone che hanno dimostrato di volergli bene. Sia all’ospedale di Bolzano, sia a quello di Silandro. Le infermiere, i medici, le altre mamme: gli hanno regalato un mucchio di cose. Giocattoli, ma anche tante tutine, pantaloncini per quando sarà più grandino».
La sua mamma, quella non gliela potrà restituire nessuno. Nella sua fantasia, forse, potrà avere la cornice di un sorriso accennato a labbra chiuse e il colore rosso di una maglietta che spunta sotto un camice bianco d’ospedale, con una siringa di latte appuntata come una spilla. Nel suo cuore resterà un mistero, inviolabile e struggente. Lo accompagnerà per tutta la vita, insieme a una lontana e indefinita sensazione di tepore della sua mamma che se lo stringe al petto per nutrirlo e carezzarlo, e farne un uomo.