Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 11/05/2010, 11 maggio 2010
I LINCEI SVELATI
«Ce la mettiamo tutta perché le Accademie devono essere vive, devono guardare al domani, mentre rischiano troppo spesso di essere rivolte solo al passato»: è così che Lamberto Maffei, scienziato celebre per le sue ricerche in neurobiologia e da un anno presidente dell’Accademia dei Lincei, ha deciso di far conoscere al pubblico la sede di rappresentanza dell’Accademia, Villa Farnesina. L’edificio di via della Lungara, famoso per le logge affrescate da Raffaello, è tuttavia poco frequentato dai visitatori e molto spesso confuso con la Farnesina, sede del ministero degli Esteri. Così Maffei, con l’aiuto dell’infaticabile Ada Baccari che dirige l’Accademia da quarant’anni, ha deciso che dal mese di maggio la Villa si potrà visitare con una guida gratuita.
Restaurata di recente, è considerata una delle più nobili e armoniose realizzazioni del Rinascimento, dove il progetto architettonico e la decorazione pittorica si fondono in una sintesi mirabile. La storia della sua costruzione si intreccia con quella di Agostino Chigi, l’ambizioso banchiere e mecenate senese che la volle edificare ai primi del Cinquecento e con quella dei più noti artisti dell’epoca, da Raffaello a Baldassarre Peruzzi, da Sebastiano del Piombo a Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma. Era affacciata sul Tevere e circondata da un giardino che voleva ricreare uno dei più celebri orti dell’antichità, quello di Geta, il mite fratello di Caracalla.
La bellezza di questo giardino, i cui lavori di restauro sono appena iniziati e dovrebbero essere conclusi tra un anno, è celebrata dagli storici, a cominciare da Giovanni Pietro Bellori: «Dall’Oriente quasi in angusto teatro riguarda Roma, e i suoi colli intorno, e con gli orti Esperidi di sempre verdi aranci, carichi di pomi d’oro, alle ripe del Tevere si distende. Dall’Occidente vagheggia le deliziose falde del Gianicolo in boschereccia scena, e d’oggi intorno ben lungi spazia la vista». E fu ispirandosi a questo giardino che Raffaello creò il capolavoro della Loggia che guarda verso il tramonto, quella con il ciclo degli affreschi di Amore e Psiche. L’artista infatti, con l’aiuto di numerosi artefici della sua bottega, da Giulio Romano a Giovanni da Udine, trasformò la volta della Loggia in una pergola, come se la vegetazione del giardino, prolungandosi all’interno della Villa, si fosse attorta in ricchi festoni attorno ai supporti, lasciando scoperti vele e pennacchi e al centro due finti arazzi con le scene finali: il sontuoso Convito degli dei e le Nozze di Amore e Psiche. Ancora oggi l’effetto è strabiliante, con la volta azzurra del cielo dipinto da Raffaello che sfuma e prosegue nell’azzurro del cielo reale, oltre le arcate della Loggia. Anche se l’ingresso alla Villa è stato spostato dalla parte opposta, nella Loggia cosiddetta di Galatea.
Qui nel 1511, il Peruzzi, che aveva progettato e ultimato le strutture architettoniche dell’edificio, passò alle decorazioni della volta, traducendo in immagini l’oroscopo di Agostino Chigi. Ma era appena a metà dell’affresco, quando Chigi tornò da Venezia portando con sé il giovane Sebastiano del Piombo, che dipinse varie scene delle Metamorfosi di Ovidio, e poco dopo ingaggiò Raffaello, che decorò uno dei campi parietali con la leggiadra figura di Galatea. Durante i lavori di restauro si è scoperto che l’affresco del panneggio alla base del dipinto di Galatea nascondeva alcuni disegni a sanguigna. Ada Baccari sostiene che siano prove dello stesso Raffaello, in ogni caso il pannello è mobile e i disegni si possono vedere. Non è l’unica curiosità: al primo piano, nella suggestiva Sala delle Prospettive, decorata da Peruzzi con raffinate partiture illusive, è rimasto il segno dei Lanzichenecchi: «C’è ben da ridere perché abbiamo fatto scappare il papa», dice la scritta tracciata in tedesco con un carbone, accanto alla data, 1528. Appena nove anni prima, il 28 agosto 1519, il ricco banchiere aveva tenuto qui il suo banchetto di nozze. I cronisti dell’epoca raccontano che le suppellettili d’oro e d’argento vennero gettate nel Tevere in segno di munificenza, ma poi recuperate con reti fatte stendere segretamente nel fiume. Agostino Chigi detto il Magnifico moriva pochi mesi dopo, a 54 anni.
Lauretta Colonnelli